Vincenzo Ammazzalorso: il poeta in bianco e nero

Vincenzo Ammazzalorso: il poeta in bianco e nero

Ho conosciuto Vincenzo Ammazzalorso quindici anni fa, in un momento in cui non cercavo altro che stimoli nuovi per rigenerare la mia visione delle cose. Quello che mi colpì subito di lui fu un sorriso aperto, ma insieme vagamente assorto, come se una parte della sua mente fosse costantemente altrove, a contemplare scenari che noi comuni mortali non riusciamo a vedere. Solo molto dopo ho capito che quel suo modo di guardare — un po’ laterale, un po’ intimo, sicuramente non convenzionale — era la stessa postura interiore che aveva affinato negli anni, prima come studioso delle scienze forestali, poi come fotografo. E non un fotografo qualsiasi, ma un uomo che ha fatto della fotografia il linguaggio segreto con cui interrogare il mondo e restituircelo nella sua forma più pura, attraverso il bianco e nero.

Vincenzo è nato a Teramo nel 1948, e porta con sé l’impronta di quella terra abruzzese dove la natura detta ancora le sue regole con un’eleganza sobria e un rigore a volte spietato. Laureatosi in Scienze Forestali, ha dedicato gran parte della sua vita all’attività didattica e professionale, cercando di trasmettere agli altri lo stesso rispetto e la stessa meraviglia che lui ha sempre provato davanti a un bosco, un torrente o un semplice tronco rugoso. Ma c’era, fin dai tempi dell’università a Firenze, un seme che germogliava in lui in parallelo: la passione viscerale per la fotografia. Non si tratta di un hobby di quelli che si coltivano distrattamente tra un impegno e l’altro, bensì di una vera e propria ricerca che lo ha portato a studiare con serietà e dedizione. A Firenze ha seguito corsi avanzati di stampa in bianco e nero, imparando ad ascoltare la luce e a comprendere come si traduce in carta fotografica. Più tardi si è perfezionato con Erminio Annunzi e Roberto Salbitani, nomi che nel mondo della fotografia significano rigore tecnico ma anche libertà visionaria.

Di Vincenzo ammiro moltissimo la capacità di unire due mondi apparentemente distanti, quello scientifico e quello artistico. È come se nella sua mente esistesse un laboratorio ideale dove la precisione dell’analisi si sposa con la delicatezza della percezione. Il suo approccio alla fotografia non è solo istintivo, né puramente tecnico: è piuttosto un cammino che parte da un’osservazione minuziosa, da un’indagine quasi botanica del soggetto, per poi sciogliersi in un’emozione che vibra silenziosa sulla superficie della carta. È una pratica che coinvolge tutto di lui, dalle mani che regolano la fotocamera alla mente che calcola luci e tempi, fino al cuore che decide infine cosa valga la pena di fermare per sempre.

Non a caso Vincenzo ama occuparsi personalmente di tutte le fasi, dalla ripresa alla stampa. Questo gli permette di controllare ogni passaggio, ma anche di restare immerso fino in fondo nel processo creativo, senza delegare a nessuno la magia delicata che trasforma una scena vissuta in un’immagine che parla. E quando osservi le sue fotografie ti accorgi che non c’è nulla di casuale. Ogni sfumatura di grigio è cercata, voluta, pensata. Ogni ombra e ogni luce raccontano una storia, ma soprattutto raccontano lui: un uomo che ha scelto il bianco e nero come forma di verità. Perché in fondo i colori possono illudere, distrarre, confondere; il bianco e nero invece scava, penetra, obbliga a guardare l’essenza.

Le sue fotografie hanno illustrato calendari di importanti istituzioni scientifiche ed economiche, sono state pubblicate su riviste e periodici di rilievo culturale. Ha partecipato a concorsi nazionali e internazionali, collezionando premi e riconoscimenti che non hanno però intaccato minimamente il suo carattere schivo, la sua eleganza naturale nel minimizzare i traguardi e riportare tutto alla semplicità del gesto iniziale: scegliere un’inquadratura, scattare, aspettare che l’immagine si riveli davvero, come se avesse un’anima da scoprire. Espone regolarmente in mostre personali e collettive, dove si può percepire in modo palpabile come la sua opera non sia solo una questione estetica, ma un vero e proprio modo di abitare la realtà.

Quando penso a Vincenzo mi viene in mente un’espressione che amo usare per definirlo: un artigiano del vedere. Non solo perché lavora con le mani e la testa, ma perché restituisce allo sguardo un valore antico, quasi sacro. Oggi che siamo sommersi da immagini istantanee, filtri, effetti, selfie che si dissolvono dopo pochi secondi, lui continua imperterrito a inseguire la sostanza. La sua fotografia è fatta di lentezza, di attese, di tempi che si misurano in minuti e non in millisecondi. Per questo guardare le sue opere è un esercizio di pazienza e di ascolto interiore. Non ti urlano addosso la loro bellezza, ma ti invitano piano piano a entrare in un mondo silenzioso, dove ogni dettaglio ha il peso che merita.

Difficile trovare in Vincenzo una dicotomia netta tra il rigore dello scienziato e il trasporto dell’artista. Nei suoi lavori questi aspetti si fondono in modo così armonioso che non riesci più a distinguerli. Il suo non è un approccio solo analitico o tecnico, ma una forma di attenzione che si apre costantemente alla sorpresa e all’ignoto. Potrei dire che il suo sguardo si muove su due binari: da un lato c’è la chiarezza mentale, la precisione della composizione, il calcolo della luce; dall’altro c’è un abbandono quasi lirico, una disponibilità a lasciarsi toccare da ciò che è inatteso, fragile, imperfetto. È un equilibrio raro, che genera immagini dove la dimensione concettuale e quella emotiva convivono senza conflitto. Il risultato è una poetica fotografica che non indulge mai in sentimentalismi facili, ma neppure cade nell’astrazione fredda. Piuttosto ci propone una sorta di riflessione umana, senza rimpianti, senza nostalgia, ma anche senza la frenesia ansiosa del presente.

Vincenzo dice spesso che il bianco e nero gli permette di “sentire” la fotografia in modo più autentico. E quando parla di sentire, non intende solo percepire visivamente, ma vivere fisicamente la tensione che esiste tra luce e ombra. Nella camera oscura, tra bacinelle e odori acre di acidi, il tempo rallenta e si fa denso. È lì che il miracolo accade davvero: un foglio bianco che si tinge poco a poco, sotto i suoi occhi, e rivela finalmente il segreto nascosto in quell’attimo rubato alla realtà. Vedere Vincenzo muoversi con la calma di un monaco, osservare il suo volto mentre aspetta che l’immagine emerga dall’ombra, lascia immaginare che la fotografia, per lui, è un atto di rispetto verso il mistero della vita.

Non posso negare che tutto questo mi abbia influenzato. Frequentare Vincenzo significa fare i conti ogni volta con l’idea che la realtà non è solo quello che vediamo distrattamente, ma è un tessuto fitto di storie, simboli, frammenti di verità che si svelano solo a chi ha la pazienza e la delicatezza di cercarli. Da lui ho imparato che fotografare non è soltanto un fatto tecnico o estetico, ma è soprattutto un modo per interrogare se stessi. Quando guardo le sue opere non vedo solo paesaggi o volti, ma percepisco una domanda che mi attraversa: che cosa resta davvero di ciò che viviamo? Cosa portiamo con noi, nel profondo, quando la luce si spegne?

Mi piace pensare che in fondo, attraverso la sua fotografia, Vincenzo abbia trovato un modo tutto suo per dare un senso alla complessità dell’esistenza. Un senso che non passa dalle parole, dai concetti o dalle teorie, ma dalla semplice evidenza di un’immagine che ci costringe a fermarci, a fare silenzio, a riflettere. In un mondo che corre sempre più veloce, in cui la superficialità è diventata quasi un requisito di sopravvivenza, incontrare una persona come lui è un dono raro. Ed è un dono che continuo a custodire con gratitudine. Grazie Vincenzo.

Salvatore Inicorbaf

 

 

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