Quindici anni dopo Lehman Brothers: la finanza ha imparato la lezione o no?

Quindici anni dopo Lehman Brothers: la finanza ha imparato la lezione o no?

A quindici anni dal crollo fragoroso di Lehman Brothers, ci chiediamo se davvero il sistema finanziario mondiale abbia imparato qualcosa o se stiamo soltanto ripetendo lo stesso copione con strumenti diversi e tecnologie più seducenti. Il ricordo del 15 settembre 2008, quando Lehman dichiarò bancarotta, rimane impresso come una ferita aperta nella storia economica globale. Quel fallimento fu la scintilla che incendiò un accumulo di tensioni: un sistema bancario carico di titoli tossici, derivati incomprensibili, un mercato immobiliare drogato e un indebitamento generalizzato, alimentato da tassi bassissimi e da un’illusione di ricchezza senza fine.

Da allora, molto è cambiato. I regolatori hanno varato pacchetti di riforme monumentali: negli Stati Uniti il Dodd-Frank Act, in Europa il sistema di vigilanza unico della BCE e una miriade di direttive sul capitale, come Basilea III, che hanno cercato di blindare la solidità delle banche. Ma la domanda vera è se tutto questo basti. La globalizzazione dei capitali è persino aumentata, i derivati sono tornati a crescere, le criptovalute hanno aperto una nuova frontiera di rischi e opportunità. E le stesse banche centrali, che hanno assunto un ruolo salvifico durante le crisi, continuano a stampare moneta e a tenere i tassi d’interesse artificialmente bassi, o ora improvvisamente altissimi, generando bolle e contrazioni che si susseguono in cicli sempre più serrati.

Guardiamo ai mercati del 2025: le Borse sono tornate a livelli record, sospinte da un’ondata di liquidità che dopo il Covid-19 non si è mai davvero ritirata. I governi hanno speso trilioni per sostenere economie congelate dai lockdown, e le banche centrali hanno comprato titoli di Stato a mani basse, riducendo artificialmente i costi del debito. Questo ha creato un paradosso: le economie sono rimaste a galla, ma a prezzo di debiti pubblici senza precedenti. Il Giappone ci offre un’anteprima estrema di questo scenario, con un rapporto debito/PIL sopra il 250%, ma l’Italia non scherza con il suo oltre 140%, e gli Stati Uniti si avvicinano rapidamente a soglie che un tempo avrebbero fatto tremare i polsi.

Il problema è che quando i tassi salgono — come è accaduto nell’ultimo biennio per combattere un’inflazione che ha sorpreso tutti nella sua veemenza — i nodi vengono al pettine. I costi del servizio del debito esplodono, i bilanci statali si incrinano, e le banche che hanno in portafoglio titoli a lungo termine a basso rendimento si trovano con minusvalenze potenziali enormi. Il caso della Silicon Valley Bank nel 2023 lo ha dimostrato: bastano pochi giorni di corse agli sportelli, alimentate dai social network, per polverizzare istituti che sembravano solidi. Il meccanismo psicologico è lo stesso del 2008, solo accelerato dalla tecnologia.

Ma c’è una differenza importante rispetto a Lehman. Allora, la Fed e il Tesoro lasciarono che la banca fallisse, convinti che fosse un segnale salutare per il mercato. Si sbagliarono clamorosamente. Il fallimento di Lehman mandò onde d’urto in tutto il sistema finanziario globale, congelando il credito e scatenando un panico che nemmeno la successiva valanga di interventi pubblici riuscì a placare subito. Oggi nessun regolatore serio vuole ripetere quell’errore. Tanto che di fronte ai crolli di Credit Suisse o delle regional banks americane, le autorità sono intervenute fulmineamente, garantendo depositi, orchestrando fusioni lampo e iniettando liquidità a fiumi. È il famoso “whatever it takes” di Draghi, traslato dagli Stati sovrani alle banche centrali come stabilizzatrici di ultima istanza.

Il problema è che questo crea una sorta di azzardo morale permanente: i mercati si sentono protetti, continuano a prendersi rischi enormi perché sanno che alla fine papà Stato o mamma Banca Centrale arriveranno a salvarli. In questo senso, la lezione di Lehman potrebbe essere stata parzialmente tradita: invece di correggere i comportamenti di fondo, li abbiamo anestetizzati.

Intanto il sistema bancario ombra, quello fuori dai radar delle autorità, è cresciuto a dismisura. Fondi hedge, private equity, piattaforme di lending alternative: un universo che movimenta somme colossali e che, in caso di crisi di fiducia, non ha la rete di salvataggio che protegge le banche tradizionali. Si pensi solo al boom del private credit, cioè prestiti diretti da fondi a imprese che non vogliono o non possono accedere al credito bancario. Una bomba a orologeria se la liquidità dovesse prosciugarsi o se una ondata di default industriali facesse emergere le fragilità.

E che dire delle criptovalute e della finanza decentralizzata (DeFi)? Questi strumenti stanno rivoluzionando i canali di raccolta e investimento, ma lo fanno in un contesto di regolamentazione ancora incompleta e frammentata. Il crac di FTX nel 2022 ha dimostrato quanto possa essere devastante un fallimento in questo settore: miliardi polverizzati, clienti rimasti senza tutela, e un effetto domino che ha sfiorato le stablecoin, che dovrebbero teoricamente rappresentare il lato “sicuro” del crypto mondo. Se la prossima crisi nascerà qui, sarà molto difficile per le autorità intervenire con le stesse leve usate per le banche tradizionali.

Poi ci sono le banche centrali stesse, la cui credibilità è oggi forse più fragile di quanto non fosse nel 2008. La Fed, la BCE, la BoE si sono infilate in un cul de sac: anni di tassi a zero o negativi hanno gonfiato i prezzi degli asset e ora che si è deciso di combattere l’inflazione alzando i tassi, il rischio è di far saltare il tavolo. I mercati, abituati a decenni di denaro facile, fanno i capricci, reagiscono con volatilità estrema, e i policymaker si trovano costretti a calibrare le mosse quasi mese per mese. Non esiste più una forward guidance credibile, ma solo una navigazione a vista.

Eppure non tutto è negativo. Va detto che il sistema bancario europeo oggi è molto più capitalizzato di quanto non fosse nel 2008, e gli stress test sono diventati una prassi regolare. Le banche detengono più capitale di qualità, meno esposizione a derivati opachi, e sono soggette a regole di vigilanza molto più stringenti. Ma come ha mostrato il caso di Deutsche Bank o del Credit Suisse, la fiducia è un animale strano: può evaporare in un tweet. Inoltre le economie avanzate sono ancora dominatrici, ma devono fare i conti con un mondo multipolare dove la Cina gioca un ruolo fondamentale sia come motore di crescita sia come potenziale fonte di shock sistemici. Basta vedere le difficoltà del settore immobiliare cinese, con giganti come Evergrande e Country Garden in bilico, per capire quanto fragile sia l’equilibrio globale.

Quindi, a quindici anni dal collasso di Lehman, possiamo dire di essere più preparati? Sotto certi aspetti sì: gli strumenti di backstop esistono, le autorità sanno come coordinarsi, la trasparenza delle banche è aumentata. Ma abbiamo costruito un sistema che si regge su interventi continui, dove il rischio privato è spesso socializzato e i debiti pubblici crescono indefinitamente. La prossima crisi, quando arriverà, potrebbe nascere non tanto dalla finanza tradizionale, ma dai suoi “rami laterali”: dalla shadow banking, dalle crypto o da un evento geopolitico inatteso che blocchi catene di approvvigionamento e mandi in tilt interi settori.

In definitiva, abbiamo imparato a tamponare le crisi, ma non a prevenirle davvero. Anzi, in certi casi abbiamo solo spostato il problema più in là, accumulando tensioni sotto la superficie. Come in una diga che tiene solo finché la pressione non supera il limite, rischiamo che un evento marginale faccia saltare il banco. Potrebbe essere un default sovrano inatteso, una crisi energetica violenta, o un crollo delle crypto che si trascina dietro tutto il mercato retail.

La sfida, per i prossimi anni, sarà tornare a un equilibrio che premi davvero la prudenza e la produttività, senza affidarsi solo ai rubinetti delle banche centrali. Forse servirebbe un nuovo paradigma culturale che riduca la dipendenza dai debiti, che premi l’investimento reale e l’innovazione concreta, e non solo la speculazione finanziaria. Ma cambiare mentalità richiede tempo, leadership illuminate e una popolazione che comprenda i rischi di un’economia costruita su sabbie mobili.

In un mondo dove la finanza corre più veloce della politica, e dove la tecnologia moltiplica la velocità dei movimenti di capitale, la vera sfida è trovare regole globali che rendano il gioco più equo e sicuro per tutti. Ma con le tensioni geopolitiche che aumentano, dalla guerra in Ucraina alla competizione Usa-Cina, il rischio è che ogni Paese pensi per sé, costruendo barriere invece che ponti.

E così, mentre celebriamo i quindici anni da Lehman, con conferenze e paper che analizzano cosa sia successo, dobbiamo anche chiederci se stiamo preparando il terreno per la prossima crisi. Perché la storia della finanza è ciclica, e se c’è una lezione davvero chiara dal 2008 è che la memoria degli investitori è terribilmente corta.

 

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