L’economia moderna ha costruito la propria impalcatura teorica e politica attorno a un’associazione ritenuta indissolubile: moneta e sovranità nazionale. Questa unione, scolpita nei trattati, nei bilanci centrali, nei libri di testo e nei discorsi dei governatori, si è trasformata in dogma. L’idea che una moneta possa esistere, circolare, persino imporsi, senza uno Stato sovrano che la garantisca, la disciplini e la inscriva nel proprio ordine giuridico, è avvertita come un’anomalia, o peggio, come una minaccia sistemica. La moneta svincolata è il grande rimosso della riflessione economica istituzionale, ciò che non si osa davvero nominare se non per esorcizzarlo. Eppure, è già tra noi. Vive nelle forme fluide delle criptovalute, nei protocolli decentralizzati, nei token programmabili, negli ambienti digitali dove il valore non è più custodito da banche centrali, ma da algoritmi distribuiti.
La moneta senza Stato non è un’utopia teorica, né un accidente esotico. È un fenomeno reale e crescente, che sfida le categorie classiche della macroeconomia e inquieta le fondamenta stesse dell’ordine monetario globale. Ciò che spaventa non è tanto la tecnologia, quanto il potere che essa disarticola. Una moneta senza Stato incrina il principio stesso della sovranità monetaria, rompe il legame tra debito pubblico e base monetaria, mina il controllo istituzionale sul credito e sulle politiche fiscali. Non a caso, le banche centrali di tutto il mondo hanno reagito con diffidenza o con tentativi di cooptazione, lanciando progetti di CBDC (Central Bank Digital Currencies) che simulano l’innovazione per conservarne il monopolio. La paura è palpabile: una moneta post-sovrana potrebbe sottrarre agli Stati nazionali uno degli ultimi strumenti di governo reale, proprio nel momento in cui la globalizzazione e la tecnosfera stanno rendendo obsoleti i confini tradizionali.
Il cuore del tabù sta qui: nella dissoluzione del triangolo Stato-moneta-legge. Per secoli, la validità di una moneta è dipesa dalla sua accettazione forzosa, dalla sua designazione come corso legale, dall’essere parte integrante dell’ordinamento statale. La legittimazione giuridica precedeva la fiducia, che a sua volta precedeva l’uso. Nella realtà odierna, però, questo schema si è capovolto. Le criptovalute non hanno corso legale, ma sono usate e accettate. Non sono garantite da uno Stato, ma da reti peer-to-peer. Non derivano da un potere politico, ma da protocolli informatici che ne assicurano scarsità, tracciabilità, programmabilità. E la fiducia non viene più concessa ex ante, bensì costruita ex post attraverso l’esperienza d’uso. Il valore emerge dalla funzionalità e dalla reputazione del sistema, non dalla sua inclusione nell’ordine legale. Siamo, di fatto, in un ecosistema monetario policentrico, dove coesistono valute pubbliche, valute private, stablecoin algoritmiche, token di scambio e strumenti ibridi.
Per l’economia istituzionale, questo rappresenta un trauma. Le sue teorie si fondano sulla centralità dello Stato come architetto delle regole, come garante ultimo del valore monetario. L’idea che la moneta sia una creatura politica, prima che economica, è il fondamento del cosiddetto chartalismo, che affonda le radici nella teoria statalista della moneta proposta da Georg Friedrich Knapp. Ma cosa accade se la moneta non ha più bisogno dello Stato per funzionare? Se è il mercato, o meglio, la comunità digitale, a sostenerla e a legittimarla? In quel momento, l’intera impalcatura dell’economia istituzionale vacilla. Le categorie di corso forzoso, di autorità emittente, di politica monetaria perdono forza esplicativa. Non è un caso che gli economisti mainstream parlino delle criptovalute solo per sottolinearne i rischi: volatilità, uso illecito, mancanza di trasparenza. Si guarda al dito, non alla luna. Il vero nodo è che queste monete alternative ridisegnano le gerarchie del potere economico.
Non è la volatilità a spaventare i governi, ma l’autonomia. Non è il riciclaggio che fa tremare i palazzi del potere, ma la possibilità che comunità auto-organizzate possano emettere, distribuire e far circolare valore senza passare attraverso i canali ufficiali. Ogni token emesso in un ecosistema decentralizzato è un atto politico: ridefinisce i confini del legittimo, propone un altro modello di fiducia, disegna nuove forme di redistribuzione. Per questo, il tema delle monete senza Stato è più geopolitico che tecnico. Riguarda l’architettura del potere nel XXI secolo. Se la moneta è lo strumento attraverso cui uno Stato esercita influenza e controllo – pensiamo al dollaro come arma geopolitica, o all’euro come vincolo politico – allora l’emergere di monete non statali rappresenta una forma di resistenza, o addirittura di contro-potere.
In alcune aree del mondo, il fenomeno ha assunto connotazioni dirompenti. In America Latina, dove l’inflazione cronica ha eroso la fiducia nelle valute nazionali, le criptovalute sono diventate strumenti reali di protezione del potere d’acquisto. In Africa, sono nate soluzioni innovative di microcredito basate su token, in assenza di una rete bancaria tradizionale. In Estremo Oriente, l’avanzata delle stablecoin private ha messo in discussione l’egemonia bancaria convenzionale. In tutti questi casi, la moneta senza Stato non è un gioco speculativo, ma una risposta concreta a deficit strutturali di fiducia, efficienza e giustizia. Il potenziale di democratizzazione finanziaria è evidente: chiunque, in teoria, può partecipare a un’economia globale disintermediata, accedere al credito, detenere risparmio, scambiare valore senza passare da banche, autorità centrali o organismi sovranazionali.
Tuttavia, questo scenario non è privo di ambiguità. La decentralizzazione non garantisce di per sé l’equità. Le reti blockchain sono tecnicamente aperte, ma spesso economicamente oligarchiche. I protocolli possono essere trasparenti, ma il potere di modificarli è nelle mani di pochi. Il rischio è che si passi da un monopolio statale a un oligopolio algoritmico, in cui il potere si sposta ma non si distribuisce davvero. Inoltre, l’assenza di un quadro normativo condiviso rende vulnerabili gli utenti e favorisce pratiche predatorie. Il nodo non è quindi scegliere tra Stato e mercato, ma ripensare le condizioni di legittimità, responsabilità e giustizia nel nuovo ecosistema monetario.
L’economia istituzionale è chiamata a un salto concettuale. Deve abbandonare il presupposto secondo cui solo lo Stato possa fondare la moneta e interrogarsi su come nuove forme di sovranità distribuita possano generare valore stabile, condiviso e affidabile. Si tratta di riscrivere le categorie stesse di moneta, fiducia, legittimità. E di riconoscere che l’era post-sovrana non è solo una minaccia, ma anche un’opportunità per costruire un’economia più resiliente, policentrica e inclusiva. La tokenizzazione del valore rappresenta un passaggio epocale: svincola l’atto monetario dal suo legame organico con il potere statuale e lo restituisce a una logica funzionale, relazionale e comunitaria. Ogni ecosistema monetario, oggi, è un atto di immaginazione istituzionale. E chi lo costruisce, costruisce anche una nuova forma di cittadinanza.
Lo scontro tra monete statali e monete senza Stato è, dunque, lo specchio di un conflitto più profondo: quello tra autorità centralizzata e auto-organizzazione, tra sovranità verticale e potere distribuito. Non esiste neutralità nella forma monetaria. Ogni moneta porta con sé una visione del mondo, un’idea di ordine, una mappa implicita dei diritti e dei doveri. La moneta statale implica una delega fiduciaria a una struttura verticale; la moneta decentralizzata implica un’assunzione di responsabilità personale e collettiva. In questo senso, il tabù non è solo economico, ma antropologico. La paura della moneta senza Stato è anche paura della libertà, del rischio, dell’ignoto. Ma è proprio in questi spazi incerti che può nascere una nuova architettura del valore.
Non si tratta di demonizzare lo Stato né di idealizzare il codice. Si tratta di riconoscere che il monopolio statale della moneta, lungi dall’essere un dato eterno, è una costruzione storica, oggi messa in discussione da un contesto tecnoculturale inedito. Le blockchain, i token, i protocolli di finanza decentralizzata non sono solo strumenti: sono forme simboliche attraverso cui si ridisegnano i confini della fiducia e del potere. Rimuovere questa rivoluzione, ignorarla o demonizzarla, è un atto di cecità sistemica. Servono nuovi strumenti analitici, nuove categorie concettuali, nuovi paradigmi. Occorre osare l’impensabile: che una moneta possa valere anche senza esercito, senza burocrazia, senza confini.
Il grande tabù dell’economia istituzionale non è solo la paura della destabilizzazione. È la difficoltà di pensare il potere fuori dalle forme note. Ma ogni tabù, prima o poi, viene infranto. E quando accade, ciò che sembrava impossibile diventa necessario. Oggi la moneta senza Stato è ancora un’eccezione. Domani potrebbe essere la nuova regola. E l’economia dovrà imparare a ragionare non più in termini di controllo, ma di relazione, apertura, adattamento. La moneta post-sovrana è già tra noi. Spetta a noi decidere se combatterla, ignorarla o comprenderla davvero.