Nel cuore dell’Abruzzo, incastonato tra le montagne del Parco Nazionale del Gran Sasso, sorge Santo Stefano di Sessanio, un borgo medioevale che ha saputo trasformare la propria marginalità geografica in un punto di forza identitario. Non è solo un paese di pietra, sospeso nel tempo e nello spazio, ma un vero e proprio laboratorio di marketing del turismo che si nutre di memoria, paesaggio e autenticità. In un’Italia dove spesso si confonde la promozione con l’omologazione, questo piccolo borgo d’altura ha saputo differenziarsi scommettendo su una strategia profondamente controcorrente: non costruire nulla di nuovo, ma restituire senso e funzione a ciò che già c’era, nel rispetto assoluto della sua anima.
Tutto è cominciato da un prodotto povero e potente: la lenticchia. Piccola, saporita, resistente come la gente che per secoli l’ha coltivata senza pesticidi sulle terrazze calcaree dell’altopiano. Divenuta Presidio Slow Food, la lenticchia di Santo Stefano è diventata il simbolo di una rinascita che parte dalla terra e dalla cura delle tradizioni. Ma il vero salto di paradigma si deve all’intuizione di Daniel Elow Kihlgren, imprenditore visionario che ha investito tempo, energie e risorse personali per trasformare il borgo in un’esperienza diffusa. Niente hotel convenzionali, niente nuovi volumi: le vecchie abitazioni sono state recuperate e trasformate in camere che conservano le stesse chiavi, gli stessi letti rialzati in lana grezza, le stesse copertine fatte al telaio. Ogni dettaglio – dagli asciugamani ai saponi artigianali, dalle culle alle fornacelle – racconta un vissuto che non è finzione scenica, ma storia vera, sedimentata negli intonaci e nelle travi scricchiolanti.
Quello che si è creato a Santo Stefano è un modello di ospitalità radicale e poetica insieme, dove l’ospite non viene a soggiornare, ma a vivere, a toccare con mano la quotidianità di una civiltà montana che resiste. Non è un museo, ma una comunità che, seppur ridotta a poco più di un centinaio di abitanti, continua a tramandare memoria e cultura materiale. Il marketing qui non è uno strumento per vendere, ma un modo per raccontare – con rispetto e precisione – un paesaggio interiore prima ancora che esteriore. Ogni camera è una microstoria, ogni pasto una narrazione, ogni scorcio una fotografia mentale che rimane impressa.
La narrazione di questo luogo ha saputo farsi internazionale senza mai snaturarsi. Ha attirato viaggiatori slow, appassionati di enogastronomia autentica, creativi in cerca di ispirazione. La strategia ha abbracciato anche la dimensione digitale, con video emozionali, contest fotografici, pacchetti esperienziali che mescolano trekking, artigianato, degustazioni e racconti. Ma soprattutto, ha saputo fare rete con il territorio, creando sinergie con borghi vicini, scuole di cucina, guide del Parco. E come se non bastasse, ha inserito un forte elemento etico: una parte degli utili generati dall’albergo diffuso è destinata all’Associazione Sextantio, che finanzia progetti sanitari per le fasce più povere del pianeta, a partire da oltre 10.000 assicurazioni sanitarie di base garantite in Rwanda.
In un’epoca in cui tutto scorre velocemente, Santo Stefano di Sessanio ha scelto la lentezza come valore. Ha costruito una proposta turistica solida partendo da un seme – quello della lenticchia – e da un’intuizione imprenditoriale che ha saputo ascoltare le pietre. La sfida, oggi, è mantenere questo equilibrio delicato tra poesia e impresa, tra sostenibilità economica e rispetto per il genius loci. In questo borgo, ogni ospite diventa un personaggio che attraversa un racconto più grande di lui, fatto di camini, scale ripide, materassi duri e silenzi profondi. Un racconto che non ha bisogno di effetti speciali, ma solo di essere vissuto.