L’ascesa di Lehman Brothers è un racconto che attraversa quasi due secoli di storia economica e sociale, intrecciando le sorti di una famiglia di immigrati tedeschi con lo sviluppo vertiginoso del capitalismo americano e, più in generale, della finanza globale. Tutto iniziò l’11 settembre del 1844, quando il giovane Henry Lehman, spinto dalle prospettive di una vita migliore, lasciò Rimpar, un minuscolo centro della Baviera, per approdare a New York. Era figlio di modesti allevatori di bestiame, portava con sé poche cose e molti sogni. Da lì si spostò ben presto a Montgomery, in Alabama, dove aprì un piccolo negozio. Il cotone era l’oro bianco del Sud, e Henry capì subito che il commercio di questo prodotto poteva assicurargli ben più che la semplice sopravvivenza. Fu così che, raggiunto dai fratelli Emanuel e Mayer, fondò la Lehman Brothers, avviando un’attività di intermediazione nel mercato cotoniero che in breve tempo prosperò.
La Guerra di Secessione avrebbe potuto spazzar via quel fragile successo, ma la famiglia Lehman ebbe l’intuizione di trasferire la sede a New York, il cuore pulsante dell’industria e della finanza americana che stava nascendo. Qui i fratelli trasformarono l’azienda in una vera e propria banca d’affari, pronta a cavalcare le onde della modernità. E in effetti, mentre gli Stati Uniti si preparavano a diventare la prima potenza industriale del mondo, la Lehman Brothers si trovava nella posizione perfetta per finanziare, accompagnare e trarre profitto da questa crescita.
Fu così che, dalle piantagioni di cotone alle linee ferroviarie che attraversavano il continente, la banca partecipò al finanziamento dei grandi progetti infrastrutturali che cementarono l’unità del Paese e resero possibile l’espansione economica. Con lo stesso spirito, Lehman investì nell’industria automobilistica nascente, nel petrolio, nel cinema di Hollywood, nei trasporti aerei. Ogni grande trasformazione che portò gli Stati Uniti nel XX secolo a dominare il mondo passava, in un modo o nell’altro, anche attraverso i capitali e le consulenze strategiche di questa banca.
Con il tempo, la Lehman Brothers divenne uno dei nomi più rispettati di Wall Street. Ma il rispetto non si traduceva solo in reputazione: significava soprattutto potere. La banca orchestrava emissioni obbligazionarie, guidava fusioni e acquisizioni, creava prodotti finanziari sempre più sofisticati. In sostanza, dettava regole che avrebbero finito per coinvolgere non solo investitori e grandi aziende, ma la vita quotidiana di milioni di famiglie americane e, in seguito, di cittadini in ogni angolo del mondo.
Il dopoguerra portò un’ulteriore ondata di prosperità, e con essa nuove sfide e nuove opportunità per la finanza. Lehman seppe interpretare come pochi altri i mutamenti di un’economia sempre più globalizzata. Non era solo una questione di spostare capitali da un continente all’altro: significava capire quali settori sarebbero cresciuti, anticipare le tendenze, sostenere l’innovazione tecnologica, prendere posizioni sui mercati emergenti. Così la banca si ritrovò a finanziare progetti immobiliari in Asia, a entrare nel capitale di imprese energetiche europee, a scommettere sulle start-up della Silicon Valley, contribuendo a disegnare la mappa economica del nuovo millennio.
Ma proprio questo slancio verso il futuro, alimentato da una fiducia quasi cieca nella crescita infinita dei mercati, cominciò a mostrare crepe insidiose. Per anni, il mantra dominante a Wall Street fu che “questa volta è diverso”, che le nuove tecniche di gestione del rischio e la finanza strutturata avrebbero reso impossibili crisi sistemiche. Si trattava di un’illusione collettiva che la stessa Lehman contribuì ad alimentare, elaborando e vendendo titoli sempre più complessi, spesso legati a mutui immobiliari di qualità discutibile. Il famigerato subprime, che molti consideravano poco più di un dettaglio tecnico, era in realtà una bomba a orologeria.
In questo clima, i requisiti patrimoniali delle banche vennero via via alleggeriti, i controlli interni si concentrarono su logiche di breve periodo, le agenzie di rating assegnarono giudizi di solidità a prodotti che solidi non erano affatto. Tutto appariva perfetto: i profitti crescevano, i bonus dei top manager toccavano cifre stratosferiche, gli investitori accorrevano fiduciosi. Ma bastò un rallentamento del mercato immobiliare americano, un incremento dei default sui mutui, per mostrare quanto fosse fragile quel castello di carte.
Il 15 settembre 2008, Dick Fuld, l’ultimo amministratore delegato della Lehman Brothers, si trovò costretto a dichiarare bancarotta. Era il fallimento più grande della storia americana: oltre 600 miliardi di dollari di debiti. Improvvisamente, l’intero sistema finanziario mondiale tremò. Borse in caduta libera, istituti di credito che si guardavano con sospetto, liquidità che spariva dai mercati interbancari. Il collasso di Lehman divenne la miccia che fece esplodere la peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione del 1929.
Molti si chiesero come fosse stato possibile che un istituto di tale rilevanza, capace di attraversare guerre mondiali, crisi petrolifere, crolli di borsa, fosse potuto scomparire così, in pochi giorni. La risposta stava nella trasformazione profonda che la banca aveva subito nel tempo: da solido intermediario a macchina iper-levereggiata, che traeva linfa non tanto dall’economia reale quanto da complessi ingranaggi di derivati finanziari. Quando questi si incepparono, la Lehman fu travolta, lasciando dietro di sé una scia di devastazione.
Eppure, la storia della Lehman Brothers non è solo una lezione su avidità e deregulation. È anche il riflesso delle ambizioni, dei sogni e dei timori di intere generazioni. I Lehman iniziarono con un bancone di legno a Montgomery, trattando sacchi di cotone; finirono con un grattacielo di vetro e acciaio a Manhattan, simbolo di un capitalismo che credeva di poter domare ogni rischio con la matematica e la tecnologia. Il crollo fu tanto più fragoroso proprio perché coinvolgeva non solo investitori e operatori finanziari, ma milioni di risparmiatori, lavoratori, pensionati i cui fondi erano in qualche modo legati a quella banca.
Da allora il sistema ha cercato di correre ai ripari, con nuove regole sui capitali, stress test più rigorosi, controlli sulle agenzie di rating. Ma la memoria dei mercati è notoriamente corta, e la spinta a innovare strumenti finanziari rimane fortissima. Ciò rende la parabola di Lehman Brothers un monito sempre attuale: l’ingegneria finanziaria non può sostituire la prudenza, e la fiducia non può essere delegata a formule matematiche che ignorano la realtà.
Oggi guardiamo a quella storia con un misto di stupore e timore. Stupore per la capacità di alcuni individui di immaginare e costruire imperi partendo da nulla; timore per la facilità con cui, anche nel nostro tempo iper-tecnologico, quegli imperi possono dissolversi, portando con sé interi settori economici e vite umane. Il retaggio di Lehman è dunque doppio: un’eredità di progresso e modernizzazione, ma anche un avvertimento su quanto sottile sia la linea che separa l’innovazione dal disastro.