Le reazioni di governi e banche centrali per evitare il tracollo del sistema globale

Le reazioni di governi e banche centrali per evitare il tracollo del sistema globale

Le reazioni dei governi e delle banche centrali ai crolli finanziari di questi anni sono state di una portata epocale, difficilmente paragonabile ad altri interventi della storia economica recente. Dopo la crisi del 2008, che aveva già sconvolto le certezze dei mercati globali, la pandemia da Covid-19 ha inferto un colpo ulteriore alla stabilità del sistema, mettendo a dura prova i bilanci pubblici e la capacità delle istituzioni monetarie di far fronte a uno shock simultaneo sia dell’offerta sia della domanda. Ma già nella crisi finanziaria scoppiata con il fallimento di Lehman Brothers, le autorità avevano iniziato a mettere in campo strumenti straordinari, spinti da una sola urgenza: evitare il collasso dell’intero sistema bancario e, con esso, dell’economia reale.

Nel giro di pochissimi giorni, i governi e le banche centrali si trovarono costretti a varare misure drastiche. Furono approvati massicci piani di salvataggio bancario, che comportarono l’immissione diretta di capitali pubblici negli istituti in difficoltà, nazionalizzazioni parziali o totali, fusioni pilotate e acquisizioni forzate per impedire fallimenti a catena. Negli Stati Uniti nacque il TARP (Troubled Asset Relief Program), un programma da 700 miliardi di dollari varato dall’amministrazione Bush e poi gestito da Obama, che servì a rilevare asset tossici e ricapitalizzare le banche. In Europa si assistette a interventi simili: la Germania mise mano a centinaia di miliardi per salvare istituti sistemici come Hypo Real Estate, il Regno Unito procedette alla parziale nazionalizzazione di Royal Bank of Scotland e Lloyds, la Francia e altri Paesi attivarono garanzie statali per centinaia di miliardi.

Parallelamente, le banche centrali misero in atto manovre senza precedenti. La Federal Reserve abbassò i tassi di interesse fino quasi allo zero e lanciò le prime operazioni di quantitative easing, acquistando titoli pubblici e privati per iniettare liquidità nei circuiti finanziari. La Banca Centrale Europea, guidata all’epoca da Jean-Claude Trichet e poi da Mario Draghi, iniziò con i programmi LTRO per fornire prestiti a lungo termine alle banche, aprendo la strada a interventi più radicali negli anni successivi, come il massiccio programma di acquisto di titoli sovrani che prese piede dopo il celebre «whatever it takes» di Draghi nel 2012.

Il filo conduttore di queste misure era chiaro: ricostruire la fiducia, preservare i depositi dei cittadini, impedire che il blocco del credito si trasformasse in una paralisi generalizzata dell’economia. Perché le crisi finanziarie, quando si propagano ai bilanci delle famiglie e delle imprese, rischiano di sfociare in depressioni prolungate, con aumenti drammatici della disoccupazione e crollo dei consumi. Questo era lo spettro che agitava le cancellerie e i banchieri centrali: ripetere l’errore del 1929, quando la Federal Reserve, anziché espandere la base monetaria, la restrinse, aggravando il tracollo.

Non si trattò solo di salvataggi bancari. Anche sul fronte della politica fiscale furono messi in campo pacchetti di stimolo economico di entità colossale. Gli Stati Uniti vararono l’American Recovery and Reinvestment Act, con oltre 800 miliardi destinati a infrastrutture, incentivi fiscali e sussidi. La Cina, allora già lanciata nella sua corsa industriale, approvò un piano di investimenti di 4.000 miliardi di yuan (circa 600 miliardi di dollari) per sostenere costruzioni e consumi interni. In Europa, la reazione fu più frammentata, condizionata dalle regole di bilancio dell’Unione e dalle tensioni tra Paesi del Nord e del Sud, ma comunque si moltiplicarono gli interventi di sostegno a famiglie e imprese.

Quando nel 2020 esplose la pandemia, lo schema si ripeté su scala persino superiore. Stavolta, però, si trattava di una crisi non originata nei mercati finanziari, bensì di uno shock sanitario con effetti devastanti sull’economia reale. Di fronte ai lockdown generalizzati, alla chiusura delle attività produttive, al collasso del turismo e del commercio globale, i governi si trovarono costretti a sospendere dogmi di rigore di bilancio che per decenni avevano dominato la scena, soprattutto in Europa. Fu sdoganata la «spesa in deficit» come strumento indispensabile per evitare la distruzione del tessuto economico.

I piani varati furono imponenti. Negli Stati Uniti l’amministrazione Trump prima e Biden poi misero in campo pacchetti complessivi superiori ai 5 trilioni di dollari, tra sussidi diretti alle famiglie, prestiti garantiti alle imprese, aiuti ai settori più colpiti. In Europa nacque il Next Generation EU, un fondo da oltre 750 miliardi di euro finanziato con debito comune, una svolta storica per l’Unione Europea che fino a quel momento aveva sempre evitato forme di mutualizzazione. La BCE, guidata da Christine Lagarde, proseguì con tassi a zero e programmi di acquisto di titoli per oltre 1.800 miliardi di euro, assicurando una liquidità pressoché illimitata ai mercati.

Molti si interrogarono sul prezzo futuro di queste politiche. Per anni i bassissimi tassi di interesse avevano consentito ai governi di accumulare nuovo debito senza apparenti problemi, ma l’inflazione rimaneva sopita. A partire dal 2021, però, la combinazione tra colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento post-Covid, boom della domanda sostenuta dai pacchetti fiscali, e infine la guerra in Ucraina, scatenò una corsa dei prezzi che riportò l’inflazione ai massimi da quarant’anni. Fu allora che le banche centrali, con la Federal Reserve di Jerome Powell in testa, furono costrette a cambiare rotta, avviando il più rapido ciclo di rialzi dei tassi dal 1980. Nel giro di pochi mesi, il costo del denaro negli Stati Uniti passò dallo 0,25% a oltre il 5%, trascinando con sé le politiche monetarie di tutto il mondo.

Questo nuovo scenario aprì interrogativi su come i governi avrebbero gestito debiti ormai elevatissimi in un contesto di tassi più alti e inflazione persistente. Il timore di una nuova crisi del debito sovrano si riaffacciò in Europa, dove Paesi come l’Italia hanno un rapporto debito/PIL superiore al 140%. Tuttavia, la memoria delle crisi precedenti ha reso le istituzioni più reattive: la BCE ha varato il TPI (Transmission Protection Instrument) per intervenire sui mercati e contenere spread eccessivi.

Nel complesso, la lezione appresa sembra essere che in tempi di emergenza non esistono tabù: quando il sistema rischia di collassare, governi e banche centrali preferiscono rischiare di più sul fronte dell’inflazione o del debito piuttosto che lasciare spazio a fallimenti sistemici. Questo approccio, però, comporta anche sfide per il futuro. Le enormi masse di liquidità immesse nei mercati hanno gonfiato negli anni i prezzi delle attività finanziarie, spingendo le borse mondiali e alimentando bolle immobiliari in molti Paesi. In un contesto di tassi bassi, la ricerca di rendimento ha portato investitori istituzionali e risparmiatori a spingersi verso asset rischiosi, con il rischio di creare nuove fragilità.

Guardando avanti, sarà cruciale capire come bilanciare le esigenze di stabilità finanziaria con quelle di sostenibilità del debito e di controllo dell’inflazione. Le banche centrali sono chiamate a un compito complesso: normalizzare gradualmente le politiche monetarie senza soffocare la crescita, soprattutto in un contesto globale dove permangono tensioni geopolitiche e frammentazioni delle catene del valore. I governi, dal canto loro, dovranno fare i conti con una pressione crescente sui bilanci pubblici, chiamati a finanziare transizioni costose come quella energetica e digitale.

In definitiva, le reazioni dei governi e delle banche centrali degli ultimi quindici anni hanno scritto un nuovo capitolo nella storia dell’intervento pubblico nell’economia. Mai si erano viste operazioni di tale ampiezza e rapidità. Resta da capire quale sarà l’eredità di lungo periodo: se questo paradigma di forte interventismo rimarrà come nuovo standard di risposta alle crisi, o se assisteremo a un ritorno a regole più rigide di bilancio e politica monetaria. Di certo, l’esperienza recente mostra che quando la fiducia rischia di crollare, il compromesso tra rigore e intervento diventa inevitabile, e che spesso è proprio la capacità dello Stato e delle banche centrali di fare da argine a stabilizzare il sistema a fare la differenza tra un rimbalzo veloce e una lunga stagnazione.

 

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