L’idea che si possa dividere un bene materiale in quote digitali scambiabili in tempo reale da qualunque parte del mondo è, per alcuni, una rivoluzione liberatoria. Per altri, una minaccia profonda all’ordine economico vigente. È in questo contesto che la tokenizzazione degli asset si presenta oggi come uno dei fenomeni più disruptive e controversi dell’economia digitale contemporanea. Non si tratta solo di tecnologia, ma di un nuovo paradigma di proprietà e redistribuzione del potere. Ecco perché il capitalismo classico, nella sua forma più consolidata e gerarchica, sembra guardare con crescente preoccupazione a questa trasformazione.
Tokenizzare un asset significa tradurre un bene – fisico o immateriale – in uno o più token digitali, registrati su una blockchain. Un immobile, un’opera d’arte, una quota societaria, un brevetto, una partita di grano: tutto può diventare un bene frazionabile digitalmente, accessibile anche con pochi euro o dollari, e negoziabile senza bisogno di banche, notai, broker o agenzie centrali. La disintermediazione e la liquidità che ne derivano rompono le barriere d’ingresso e consentono a piccoli investitori o comunità distribuite di partecipare alla gestione e al possesso di asset che, fino a ieri, erano riservati a élite patrimoniali o istituzioni.
Questo nuovo modello svela una tensione di fondo. Il capitalismo classico si è sviluppato storicamente attraverso l’accumulazione, la concentrazione della proprietà e il controllo verticale delle risorse. I grandi gruppi industriali e finanziari hanno costruito imperi fondati sulla centralizzazione dei beni e sull’asimmetria tra chi possiede e chi accede. La tokenizzazione, invece, tende alla scomposizione, alla condivisione distribuita, alla creazione di un’economia più fluida, orizzontale e peer-to-peer. Non è quindi solo un’innovazione tecnologica, ma una trasformazione ideologica che tocca le fondamenta della proprietà e della governance economica.
Il motivo per cui tutto questo spaventa il capitalismo tradizionale è legato a una perdita di controllo sistemico. In un’economia tokenizzata, i circuiti classici di controllo – finanziari, normativi, patrimoniali – vengono aggirati o resi obsoleti. I token permettono trasferimenti diretti, senza frontiere, senza autorizzazioni, senza mediazioni costose. Questo è un bene per chi punta alla democratizzazione dell’economia, ma è un problema per chi ha costruito la propria rendita sulla gestione dell’accesso. I gatekeeper dell’economia – banche, fondi, agenzie di rating, studi notarili, trust – vedono ridursi il proprio ruolo.
Ma il nodo centrale non è solo il disintermediare. È anche la trasformazione della logica proprietaria. Laddove il capitalismo classico si fonda sull’idea di accumulazione lineare, la tokenizzazione introduce il principio della frazionalità dinamica. Non si possiede più un intero bene, ma una porzione flessibile, spesso riunita in smart contract che regolano accesso, utilizzo, diritti e dividendi. Questo crea un sistema modulare e adattivo, dove la proprietà si sposta, si riconfigura, si adatta in tempo reale alla domanda, all’interesse, all’utilizzo.
Inoltre, la tokenizzazione è anche narrativa: cambia il racconto dell’economia. Non più grandi proprietà statiche gestite da pochi, ma ecosistemi economici aperti, basati su micro-partecipazioni, interessi condivisi, voti ponderati, modelli DAO. Questa visione è radicalmente diversa da quella della corporation novecentesca. In un contesto tokenizzato, la creazione di valore può avvenire attraverso reti distribuite, logiche cooperative, trasparenza automatica, tracciabilità inviolabile. È una mutazione culturale prima ancora che giuridica o contabile.
Proprio per questo, la resistenza è forte. Gli attori tradizionali evocano spesso i rischi della volatilità, dell’assenza di regolamentazione, della possibile manipolazione. E non mancano i casi in cui la tokenizzazione è stata usata in modo ambiguo o truffaldino. Ma sarebbe ingenuo pensare che la vera paura riguardi solo la sicurezza degli investitori. In realtà, il sistema tradizionale teme di essere scavalcato da un modello più agile, più aperto e più coerente con le dinamiche digitali della contemporaneità.
Il confronto è quindi tra due visioni del potere economico. Da una parte la finanza centralizzata, verticalizzata, con un forte potere normativo e strutture piramidali. Dall’altra, l’idea che la proprietà possa essere fluida, partecipativa, collettiva e gestita da codici software anziché da consigli di amministrazione. Un sistema in cui anche un cittadino con pochi euro può possedere una quota di un grattacielo a New York o di un impianto eolico in Puglia. Questo scenario è destabilizzante per le logiche oligopolistiche del passato, ma estremamente affascinante per una nuova generazione di investitori digitali.
Un’altra ragione della diffidenza è la perdita di privilegio informativo. Il capitalismo classico si fonda su asimmetrie di informazione, che generano margini, rendite, vantaggi competitivi. La blockchain, al contrario, è trasparenza radicale. Ogni movimento è registrato, ogni quota è verificabile, ogni contratto è leggibile da chiunque. In un mondo in cui i dati diventano la nuova valuta, questa trasparenza è intollerabile per chi ha prosperato sul segreto, sulla negoziazione riservata, sulla leva informativa.
Naturalmente, non si può ignorare che la tokenizzazione ponga sfide reali: dal punto di vista giuridico, fiscale, assicurativo. Non tutti i Paesi riconoscono il valore legale dei token rappresentativi di beni. Le normative sono spesso frammentate, ambigue, in ritardo. Ma proprio questo ritardo normativo, lungi dall’essere un incidente, è spesso una scelta difensiva dei sistemi tradizionali. Bloccare o rallentare la diffusione dei token serve a guadagnare tempo, a recuperare posizioni, a cercare modalità di controllo ex post.
Tuttavia, anche alcuni attori istituzionali stanno cominciando a sperimentare. Banche centrali, borse regolamentate, fondi pubblici di investimento stanno testando sandbox digitali per emettere token legati ad asset reali, come obbligazioni, fondi immobiliari, progetti infrastrutturali. L’obiettivo è chiaro: integrare la tokenizzazione all’interno di un framework regolato, togliendole la sua portata più radicale. Questo approccio può favorire un’adozione graduale, ma rischia anche di normalizzare la rivoluzione e di svuotarla del suo potenziale trasformativo.
Il vero dilemma è quindi politico: la tokenizzazione può diventare uno strumento di emancipazione, o sarà riassorbita nelle logiche centralizzate? La storia economica è piena di esempi di innovazioni nate come rivoluzioni e poi istituzionalizzate: basti pensare a Internet, nato come rete libera e poi colonizzato dalle Big Tech. La sfida è mantenere la dimensione partecipativa e redistributiva del modello tokenizzato, senza cedere alla tentazione della compatibilità forzata con i vecchi schemi.
Un esempio emblematico è il settore immobiliare. La possibilità di tokenizzare immobili, dividendo la proprietà in quote digitali accessibili anche ai piccoli investitori, potrebbe democratizzare l’accesso al mattone, storicamente dominio dei grandi capitali. Ma le resistenze sono forti: lobby notarili, agenzie immobiliari, istituzioni creditizie vedono minacciati i loro margini. Eppure, nei mercati più avanzati, stanno già nascendo piattaforme di real estate tokenizzato che consentono di investire in immobili frazionati, gestiti da DAO e remunerati tramite smart contract.
Un altro ambito promettente è l’arte tokenizzata. La possibilità di dividere la proprietà di un’opera d’arte tra più soggetti, o di creare token rappresentativi del diritto di esposizione, di licenza, di vendita, sta riscrivendo le logiche del collezionismo e del copyright. Anche qui, le istituzioni tradizionali resistono, ma la direzione è tracciata: il valore non è più concentrato, ma condiviso, non è statico, ma liquido.
In conclusione, la tokenizzazione degli asset non è una semplice evoluzione tecnologica. È una trasformazione filosofica della proprietà, una redistribuzione del potere economico, un’apertura delle strutture chiuse. Per questo spaventa chi ha costruito la propria forza sul controllo, sull’esclusività, sull’opacità. Ma proprio per questo può rappresentare la chiave di volta per un’economia più giusta, più inclusiva, più aperta alle generazioni future.
Il capitalismo classico, se vuole sopravvivere, dovrà adattarsi a questa nuova grammatica. Altrimenti sarà superato da un capitalismo fluido, decentralizzato e tokenizzato, dove il potere non si misura più in proprietà concentrate, ma in partecipazione distribuita.