La storia della fusione Bayer – Monsanto: il diserbante che bruciò 63 miliardi

La storia della fusione Bayer – Monsanto: il diserbante che bruciò 63 miliardi

Quando nel 2016 la tedesca Bayer AG annunciò l’intenzione di acquisire l’americana Monsanto, il mondo reagì con un misto di sorpresa, allarme e incredulità. Si trattava di un’operazione gigantesca, da oltre 63 miliardi di dollari, la più grande mai realizzata da un’azienda tedesca all’estero. Ma non era solo la portata economica a impressionare. Era l’identità della preda: Monsanto non era una società qualsiasi. Era l’azienda più odiata del pianeta, almeno secondo milioni di ambientalisti, agricoltori e consumatori che la identificavano con gli OGM, i pesticidi e in particolare il glifosato, principio attivo del celebre erbicida Roundup. E Bayer, con la sua immagine storica di farmaceutica “seria” e rispettata, rischiava di ereditare un fardello esplosivo.

La logica industriale dell’acquisizione era chiara. Bayer voleva diventare il leader globale dell’agrochimica integrata, unendo la propria divisione di sementi e pesticidi con quella di Monsanto per offrire un pacchetto completo agli agricoltori: sementi brevettate, trattamenti chimici e tecnologie digitali per la gestione dei campi. In un mondo alle prese con la crescita demografica e i cambiamenti climatici, il business del food-tech appariva promettente. Ma nessun modello economico poteva prevedere le ricadute reputazionali e legali che avrebbero travolto Bayer dopo l’acquisizione.

Già durante le trattative, le proteste si moltiplicarono. In Europa, migliaia di attivisti scesero in piazza. Petizioni online raggiunsero milioni di firme. Il nome Monsanto evocava l’incubo della soia transgenica, delle monoculture intensive, del controllo brevettuale sulle sementi, delle connivenze con governi e agenzie di regolazione. Era difficile trovare un marchio più compromesso. Eppure Bayer andò avanti. Dopo due anni di esami antitrust e condizioni imposte da Stati Uniti, Unione Europea e Brasile (tra cui la vendita di asset a BASF per preservare la concorrenza), l’acquisizione venne finalizzata nel 2018. Bayer cancellò immediatamente il marchio Monsanto. Ma non poteva cancellare la sua storia.

Già nel 2018 iniziarono i primi guai. Una corte della California condannò Bayer a risarcire con oltre 280 milioni di dollari un giardiniere malato di cancro che aveva usato il Roundup per anni. Il principio attivo del prodotto, il glifosato, era stato classificato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “probabilmente cancerogeno”. In pochi mesi, le cause legali si moltiplicarono. Iniziò un’ondata senza precedenti: decine di migliaia di cause collettive negli Stati Uniti, miliardi di dollari a rischio, un danno d’immagine devastante.

Il titolo Bayer in borsa crollò. Gli azionisti iniziarono a protestare. Alcuni membri del board furono costretti a dimettersi. Per molti osservatori, l’acquisizione di Monsanto fu un errore storico, un suicidio reputazionale per un’azienda che da oltre un secolo incarnava la solidità della chimica tedesca. Eppure, per i vertici Bayer, non si trattava solo di un errore di calcolo. Era una scommessa strategica, basata sulla convinzione che l’agricoltura del futuro avrebbe avuto bisogno di soluzioni combinate: genetica, chimica e digitale.

Ma la tempesta legale non si fermò. Tra il 2018 e il 2021, Bayer fu costretta ad accantonare oltre 12 miliardi di dollari per chiudere le cause. Alcune furono vinte, molte altre perse. La fiducia degli investitori vacillò. Le sinergie promesse tardavano ad arrivare. Anche la scienza fu chiamata in causa: mentre una parte del mondo scientifico difendeva la sicurezza del glifosato, altri studi sollevavano preoccupazioni crescenti sulla tossicità a lungo termine, sugli effetti ambientali e sulla presenza di residui nei cibi.

Il caso Bayer – Monsanto divenne così un simbolo della crisi del capitalismo estrattivo, quello che punta al profitto breve sacrificando ambiente, salute e fiducia. Ma anche un monito per le future fusioni: i rischi reputazionali possono superare quelli economici, e un marchio compromesso può trascinare con sé anche l’acquirente più rispettabile.

A livello geopolitico, l’operazione fu interpretata come la risposta europea al dominio americano nel biotech agricolo. Monsanto era una creatura di Wall Street, vicina a Washington. Bayer era il volto dell’industria tedesca, con sede a Leverkusen e radici nobili. Ma questa narrativa non reggeva più nel mondo globale. Dopo l’acquisizione, Bayer divenne anch’essa una multinazionale transnazionale, esposta alle stesse logiche speculative, alle stesse critiche, alle stesse instabilità.

Eppure, nel medio periodo, la società ha iniziato a riorganizzarsi. Ha accelerato nella direzione di una agricoltura digitale, ha investito nella ricerca di alternative sostenibili ai pesticidi, ha lanciato iniziative per la trasparenza. Ma il danno ormai era fatto. Per milioni di persone, Bayer era diventata “quella che ha comprato Monsanto”, e ogni iniziativa “green” appariva sospetta.

Il caso Bayer – Monsanto ha cambiato anche il modo in cui parliamo di fusione e acquisizione. Ha messo in evidenza il potere dell’opinione pubblica globale, la forza del contenzioso americano, il peso crescente dei valori ambientali. Ha mostrato che la licenza sociale a operare è fragile, e che oggi il giudizio degli stakeholder vale quanto quello degli analisti finanziari.

Oggi l’agrochimica è un settore in profonda trasformazione. L’intelligenza artificiale, i nuovi materiali, i modelli climatici stanno riscrivendo il futuro dell’agricoltura. Ma la lezione di Bayer – Monsanto resta: non basta dominare il mercato, bisogna anche saper parlare alla società, rispondere alle paure, anticipare le critiche. E questo, forse, nessuna due diligence potrà mai misurarlo davvero.

 

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