L’idea che una moneta possa esistere senza uno Stato è uno dei pensieri più destabilizzanti per il mondo economico contemporaneo. In un’epoca in cui ogni leva di controllo macroeconomico passa attraverso la gestione della base monetaria, della massa circolante, dei tassi d’interesse e della politica valutaria, l’emergere di criptovalute indipendenti, come Bitcoin, ha scardinato le certezze più profonde delle istituzioni economiche globali. Le monete senza Stato non sono semplicemente nuovi strumenti di pagamento: sono un attacco diretto al concetto di sovranità monetaria, che è, a sua volta, il pilastro invisibile su cui si regge ogni Stato moderno.
L’invenzione del denaro è storicamente legata al potere. Le prime monete portavano l’effigie del re, e ogni passaggio economico era anche un atto di riconoscimento dell’autorità politica. Nei secoli, con l’avvento delle banche centrali, il legame tra Stato e moneta si è strutturato in forme sempre più sofisticate, fino a diventare uno strumento di governo indiretto delle società. Attraverso la moneta sovrana, lo Stato stabilisce i criteri di scambio, decide quanta liquidità immettere, regola l’inflazione, finanzia la spesa pubblica e, in ultima istanza, garantisce stabilità.
L’introduzione di una moneta apolide, decentralizzata, senza banca centrale, senza confini, mina questa architettura alla radice. Non è quindi sorprendente che la reazione delle istituzioni sia stata, in larga misura, di rifiuto, repressione o tentativo di cooptazione. Il caso di Bitcoin è emblematico: una moneta digitale creata senza un ente emittente, il cui algoritmo limita l’offerta a un tetto massimo, in netta antitesi rispetto alla logica espansiva della moneta fiat. Questo modello sottrae agli Stati la possibilità di “stampare denaro”, ovvero di agire sull’offerta monetaria per fini anticiclici, inflattivi o emergenziali. La cripto-economia si presenta così come un sistema immunitario parallelo, capace di funzionare senza la regolazione di una banca centrale, senza politica fiscale e senza rapporti di forza territoriali.
Ma la paura delle monete senza Stato è anche e soprattutto una paura geopolitica. Le valute sovrane sono uno strumento di potere internazionale. Il dollaro statunitense, ad esempio, non è solo la moneta di una nazione: è lo standard di riserva globale, lo strumento con cui si pagano le materie prime, si regolano i debiti, si definiscono gli equilibri commerciali. Il dominio del dollaro è un fatto militare, politico e culturale. È stato sostenuto dalla forza delle armi, dalle reti finanziarie globali e dalla fiducia costruita intorno agli Stati Uniti come garante dell’ordine mondiale. Qualunque tentativo di scardinare questa centralità, anche in forma digitale, è percepito come una minaccia strategica.
In questo senso, le criptovalute sono viste dalle istituzioni come agenti di destabilizzazione. La loro capacità di sottrarsi al controllo, di eludere le sanzioni, di sfuggire alla tracciabilità classica, rappresenta una falla nel sistema della compliance internazionale. Basti pensare al caso dell’Iran o della Corea del Nord, che hanno utilizzato Bitcoin e altre monete digitali per aggirare l’embargo. Ma anche ai movimenti di protesta e alle organizzazioni disintermediate che finanziano le loro attività attraverso valute che nessuna autorità può bloccare. Tutto questo rende la moneta digitale senza Stato un vettore di potere non statale, potenzialmente incontrollabile.
Non sorprende quindi che le reazioni istituzionali vadano dalla criminalizzazione alla colonizzazione. In alcuni Paesi, le criptovalute sono state vietate o fortemente limitate. In altri, si è preferito rispondere con una versione statalizzata del modello: le cosiddette Central Bank Digital Currencies (CBDC). Si tratta di monete digitali emesse dalle banche centrali, con una struttura tecnologica ispirata alla blockchain ma profondamente diversa nei principi. Le CBDC sono centralizzate, tracciabili, programmabili e inserite all’interno della governance monetaria esistente. Il loro obiettivo non è quello di liberare la moneta dallo Stato, ma di preservare lo Stato dentro la moneta.
Questo tentativo di appropriazione del linguaggio e della tecnologia della cripto-economia da parte degli apparati statali è un altro segnale della profondità del tabù. Lo Stato moderno non può accettare una moneta che non controlla, così come non può accettare una cittadinanza che non riconosce confini. In un mondo in cui il potere si misura anche in capacità di emissione monetaria, la comparsa di un ecosistema monetario parallelo – che non chiede permesso – è una rivoluzione silenziosa, ma radicale.
Un altro nodo centrale è la questione fiscale. Le criptovalute sfuggono spesso alla tassazione classica. La difficoltà di identificarne i possessori, la volatilità, la mancanza di soggetti giuridici responsabili rende difficile applicare i regimi fiscali tradizionali. Questo indebolisce non solo la capacità redistributiva dello Stato, ma anche il suo ruolo di garante della giustizia sociale. In molti casi, l’accusa che viene mossa alle criptovalute è proprio quella di essere “elitarie”, “opache”, “asociali”. Ma questo giudizio nasconde spesso un rifiuto più profondo: la paura di perdere il monopolio della legittimazione monetaria.
Eppure, la narrazione che dipinge le criptovalute come strumenti anarchici o asociali è solo una parte del quadro. In realtà, molte iniziative legate al mondo crypto si fondano su valori comunitari, trasparenza, inclusione, accesso libero e fiducia algoritmica. Il fatto che queste reti siano spesso auto-organizzate, distribuite, non gerarchiche, rappresenta una sfida all’organizzazione verticale dello Stato-nazione, ma non necessariamente un’alternativa regressiva. Al contrario, possono emergere modelli più dinamici di governance economica, capaci di affiancare – o persino correggere – gli eccessi del potere statale.
Tuttavia, questa potenzialità è ancora lontana dall’essere riconosciuta. L’attuale conflitto tra cripto-finanza e economia istituzionale si gioca sul terreno del linguaggio, delle norme e della legittimità. Mentre la finanza pubblica difende la sua centralità con regolamenti, sanzioni e narrazioni securitarie, il mondo crypto avanza con la forza della sperimentazione e della rapidità. Questa asimmetria rende lo scontro instabile e incerto. Alcuni Stati tentano una convivenza, altri scelgono la repressione. Ma tutti condividono lo stesso timore: che la moneta possa emanciparsi dal potere.
In definitiva, la questione delle monete senza Stato è molto più che economica. È antropologica, giuridica, filosofica. È una domanda sul rapporto tra denaro e autorità, tra valore e legittimazione, tra scambio e sovranità. E in un’epoca in cui le tecnologie permettono di ripensare radicalmente questi legami, è inevitabile che le istituzioni reagiscano con ambivalenza. Da un lato, riconoscono l’innovazione. Dall’altro, temono la perdita di un controllo costruito nei secoli.
Ma forse la vera domanda è un’altra: può esistere una moneta senza Stato che non sia per questo una minaccia? Possiamo immaginare un futuro in cui le valute digitali coesistano con le sovranità tradizionali, trovando un equilibrio tra libertà e responsabilità, tra decentralizzazione e giustizia sociale? Perché, se è vero che la moneta è una costruzione politica, allora anche le nuove monete – per quanto algoritmiche – dovranno essere ripensate politicamente. E qui si gioca la sfida più grande: non fermare la rivoluzione, ma governarla senza svuotarla del suo potenziale trasformativo.