Il mondo della finanza internazionale è pieno di meccanismi nascosti, dispositivi tecnici apparentemente secondari che in realtà tengono insieme interi sistemi. Uno di questi è il carry trade, una pratica finanziaria tanto elegante quanto pericolosa. Per anni ha agito nell’ombra come un motore silenzioso che ha alimentato le obbligazioni sovrane, il mercato del credito e la circolazione dei capitali tra le economie sviluppate e quelle emergenti. Il suo centro gravitazionale è stato per lungo tempo il Giappone. E ora che questo motore si sta fermando, il sistema globale trema.
Il carry trade è una strategia apparentemente semplice: si prende a prestito una valuta con tassi di interesse molto bassi e si investono quei fondi in asset denominati in valute con tassi più alti. La differenza tra i due rendimenti costituisce il guadagno, un arbitraggio su scala globale. A rendere possibile tutto ciò, per decenni, è stato il tasso di interesse zero o negativo imposto dalla Bank of Japan, in una politica monetaria ultra-accomodante iniziata con la crisi degli anni Novanta e poi rafforzata con l'arrivo dell'“Abenomics”.
Per comprendere la portata globale del fenomeno, bisogna considerare la massa di capitali internazionali che si è riversata in obbligazioni, titoli di stato, asset immobiliari e fondi di investimento, tutti finanziati attraverso prestiti in yen. Il Giappone, pur non crescendo realmente, ha funzionato come banca centrale ombra dell'economia mondiale. Le sue banche, i suoi istituti finanziari, e persino operatori esteri hanno usato il denaro a costo zero giapponese per speculare altrove. Questo ha reso possibile l'’inflazione degli asset, la tenuta artificiale dei tassi, l'illusione di stabilità.
Ma ogni equilibrio fittizio ha un limite. Con il ritorno dell'’inflazione globale nel 2022-2024, il Giappone ha cominciato ad alzare i tassi di interesse. Un gesto apparentemente tecnico, ma che ha l'effetto di una bomba nucleare nella finanza globale. Gli investitori che per anni hanno costruito portafogli iper-levereggiati grazie al carry trade, si trovano ora di fronte a un problema enorme: il costo del finanziamento sta salendo. Quel margine tra interesse attivo e passivo si sta assottigliando, fino a sparire. Il differenziale su cui si basava l'intera strategia evapora. E con lui, crolla la convenienza del sistema.
Gli effetti sono potenzialmente devastanti. Inizia una corsa al disinvestimento. Si liquidano posizioni, si vendono titoli, si abbandonano obbligazioni a basso rendimento. Questo genera un effetto domino sui mercati, in particolare sui titoli di stato dei paesi che più hanno beneficiato della liquidità giapponese. Paesi emergenti, ma anche grandi economie avanzate come gli Stati Uniti, che oggi si trovano a dover attrarre capitali senza più il paracadute orientale.
Il punto non è solo che il Giappone non finanzia più. Il punto è che i soggetti che per anni hanno fatto leva su questa pratica, ora devono ripagare i debiti contratti. Il che significa che, oltre a non comprare più nuovi asset, si mettono a vendere quelli vecchi. Questa pressione al ribasso sui prezzi delle obbligazioni è tanto più violenta quanto più grande è la leva impiegata. E siccome il carry trade ha incentivato per anni l’uso esasperato della leva, il sistema rischia un effetto cascata incontrollabile.
In questo scenario, il Giappone si rivela per ciò che è realmente: l'anello debole della catena. Non perché abbia fatto qualcosa di sbagliato in assoluto, ma perché è stato l'unico a prolungare artificialmente un paradigma monetario che altrove era già in fase di superamento. Ha tenuto i tassi a zero quando il mondo stava già invertendo la rotta. Ha lasciato che il suo sistema finanziario si trasformasse in una piattaforma di speculazione globale, anziché concentrarsi sulla crescita reale. E ora, nel momento in cui prova a rientrare nei ranghi, scopre di essere ostaggio delle scelte passate.
Il crollo del carry trade comporta un doppio effetto: da un lato il deflusso di capitali esteri, dall'altro la necessità di rifinanziamento interno per mantenere a galla il sistema. Ma qui si apre un'altra crepa: gli stessi risparmiatori giapponesi, per anni restii a consumare e inclini al risparmio, iniziano a perdere fiducia nella solidità dello yen. La moneta nipponica si indebolisce, l’inflazione importata prende piede, e il potere d'acquisto interno comincia a erodersi. È l'inizio della spirale negativa.
La vera tragedia è che il sistema giapponese, in apparenza così solido, non ha strumenti per reagire. Non può aumentare troppo i tassi senza far esplodere il costo del servizio del debito. Non può tornare a tassi zero senza riattivare il ciclo inflattivo. Non può contare sul mercato interno, ormai in contrazione strutturale. E non può nemmeno sperare in una spinta esterna, perché il contesto globale è in fase di riallineamento geopolitico, con una Cina in ascesa e un'Europa affaticata.
Ciò che sta emergendo è un quadro di ribilanciamento brutale. I tassi saliranno ovunque, il costo del debito aumenterà, e le banche centrali dovranno fronteggiare non solo l'inflazione, ma anche la contrazione della liquidità globale. Il crollo del carry trade è il segnale che quella stagione di finanza gratuita è finita. E il Giappone, che di quella stagione è stato il cuore occulto, sarà anche il primo a pagarne il prezzo.
Se non si comprenderà la portata sistemica di questo fenomeno, si continuerà a sottovalutare l'effetto che la fine della leva giapponese avrà sui mercati obbligazionari, sulla sostenibilità fiscale dei governi e sulla stabilità del sistema bancario. Eppure, i segnali sono tutti davanti ai nostri occhi: lo yen che precipita, i tassi giapponesi che risalgono, gli investitori che fuggono, i portafogli globali che si contraggono. È il suono della frenata di un motore che si sta spegnendo. E quando quel motore era quello invisibile dell’equilibrio finanziario globale, è lecito temere che l’intero veicolo cominci a sbandare.