L’economia come scienza moderna nasce con l’analisi del capitalismo, sistema produttivo che si è affermato globalmente negli ultimi due secoli. Alla base c’è la ricerca del profitto: i capitalisti investono in imprese che producono merci, assumono lavoratori salariati (formalmente liberi ma privi di mezzi propri) e li impiegano se i ricavi attesi superano i costi. In caso contrario, il lavoro resta disoccupato. Questo meccanismo, pur essendo all'origine di un formidabile aumento della ricchezza globale, comporta anche gravi rischi e diseguaglianze.
Già nei millenni precedenti si erano osservati diversi modelli economici: dall’economia consuetudinaria alla schiavitù, dal feudalesimo al mercantilismo. Tuttavia, è con la Rivoluzione industriale in Inghilterra e l’opera pionieristica di Adam Smith – “La ricchezza delle nazioni” (1776) – che nasce l’economia politica moderna. Smith, ispirato dall’individualismo liberale di Locke e Hume, teorizzava che l’interesse individuale potesse, grazie a una “mano invisibile”, promuovere anche il bene collettivo. La divisione del lavoro aumenta la produttività, e lo Stato ha il compito di fornire infrastrutture e regole dove il mercato non arriva.
Secondo i classici (Ricardo, Malthus, Mill), il valore delle merci derivava dal lavoro. Essi dimostrarono anche che il commercio internazionale è più vantaggioso dell’autarchia, e che il profitto è motore dell’accumulazione e dell’innovazione. Tuttavia, riconoscevano un conflitto strutturale tra capitale e lavoro. Marx lo definì “lotta di classe”. I neoclassici (Walras, Pareto) cercarono invece di armonizzare il sistema, sostenendo che i prezzi riflettono scarsità e utilità, e che il mercato tende a un equilibrio efficiente e privo di conflitti.
Eppure, i limiti del capitalismo sono evidenti. Tre problemi emergono con forza:
- Instabilità: crisi finanziarie, inflazione, crolli borsistici e disoccupazione sono ricorrenti.
- Ineguaglianza: l’1% della popolazione detiene metà della ricchezza globale; 800 milioni di persone vivono ancora in povertà estrema.
- Inquinamento: l’abuso dei combustibili fossili causa cambiamenti climatici. Le imprese non calcolano nei propri costi i danni ambientali (esternalità negative).
Nonostante ciò, il capitalismo ha portato progressi materiali senza precedenti: in 200 anni il reddito medio è aumentato di 15 volte, l’analfabetismo è quasi scomparso, e l’aspettativa di vita è raddoppiata.
Il merito di questo progresso va in gran parte all’innovazione, teorizzata da Schumpeter come “distruzione creatrice”: le imprese innovative, finanziate da banche e mercati, rimpiazzano quelle obsolete, rilanciando la crescita.
Ma l’economia non è una scienza triste, come scriveva Carlyle, bensì uno strumento per “fare del bene”, secondo Keynes. Quest’ultimo, tra le due guerre, criticò i limiti delle teorie classiche e neoclassiche, proponendo soluzioni concrete per affrontare recessione e disoccupazione: investimenti pubblici, politica monetaria espansiva e redistribuzione dei redditi.
Oggi, per contenere l’inflazione servono tagli alla spesa pubblica e controllo della massa monetaria; per combattere la disoccupazione, invece, servono stimoli alla domanda. Le disuguaglianze si riducono con tassazione progressiva e accesso all’istruzione. Per difendere l’ambiente servono vincoli, tasse sui combustibili fossili e incentivi alle fonti rinnovabili.
Infine, in un mondo sempre più integrato, le politiche economiche richiedono coordinamento internazionale. I conflitti geopolitici e il ritorno al protezionismo, al contrario, ostacolano la cooperazione necessaria.
La sfida non è abolire il capitalismo, ma governarlo meglio. Lo Stato ha il compito di garantire le condizioni per uno sviluppo sostenibile, equo e stabile.