I tassi salirono e le case crollarono di valore: Lehman Brothers finì nella polvere

I tassi salirono e le case crollarono di valore: Lehman Brothers finì nella polvere

Il quadro economico che precedette il crollo di Lehman Brothers fu un intricato intreccio di fattori che si alimentarono a vicenda, dando vita a un vero e proprio vortice finanziario. Per comprendere come si sia potuti arrivare a una delle più clamorose bancarotte della storia moderna, bisogna tornare a osservare con attenzione i segnali di crisi che iniziarono a manifestarsi già tra il 2006 e il 2007, quando la Federal Reserve, preoccupata per l’aumento dell’inflazione, decise di avviare una decisa stretta monetaria. Questo intervento si tradusse in un progressivo aumento dei tassi d’interesse, che da livelli straordinariamente bassi tornarono a salire, invertendo la tendenza accomodante tenuta per anni.

Questa manovra, pur giustificata dal tentativo di contenere l’espansione dei prezzi e ridurre le pressioni inflazionistiche, ebbe come effetto collaterale quello di rendere più oneroso il costo del denaro. Per milioni di famiglie americane, specialmente quelle appartenenti alle fasce economicamente più fragili, significò trovarsi improvvisamente con rate del mutuo più alte da pagare. E non si trattava di mutui qualsiasi, bensì dei famigerati mutui subprime, concessi con leggerezza dalle banche a soggetti con scarsa affidabilità creditizia. Questi prestiti erano stati impacchettati, cartolarizzati e trasformati in titoli derivati, venduti agli investitori di mezzo mondo, finendo così per spargere il rischio su scala globale.

Intanto, nello stesso periodo, il mercato immobiliare statunitense cominciava a dare i primi segni di cedimento. Dopo anni di crescita incessante dei valori delle abitazioni, sostenuti da una domanda alimentata anche da strumenti di finanziamento sempre più spregiudicati, i prezzi iniziarono a stabilizzarsi e poi a calare. Questo cambiamento, apparentemente fisiologico dopo un lungo boom, si rivelò invece letale perché minò alla radice l’assunto su cui si reggevano interi portafogli di investimento: la convinzione che i prezzi delle case non potessero scendere. Era convinzione diffusa che, in caso di insolvenza del mutuatario, le banche potessero facilmente rivalersi rivendendo l’immobile a un valore superiore o almeno pari al residuo debito. Ma quando i prezzi cominciarono a scendere, questa sicurezza svanì come neve al sole.

Il risultato fu che, già nel 2007, gli indici di default sui mutui subprime iniziarono a salire vertiginosamente. Sempre più famiglie non furono più in grado di far fronte alle rate mensili, complice anche la perdita di posti di lavoro in settori collegati all’edilizia. Gli immobili pignorati tornarono sul mercato in gran numero, ma in un contesto in cui i compratori erano ormai pochi e timorosi. La conseguenza fu una spirale discendente dei prezzi, che peggiorava ulteriormente i bilanci delle banche e degli investitori esposti a quei titoli.

In questo scenario, Lehman Brothers si ritrovò seduta su una vera e propria polveriera finanziaria. La banca aveva accumulato enormi quantità di asset legati al settore immobiliare e ai mutui subprime, convinta di aver saputo distribuire e contenere il rischio grazie a complessi strumenti di ingegneria finanziaria. In realtà, quei prodotti erano molto più interconnessi di quanto si pensasse, e la perdita di valore delle case, unita all’aumento dei tassi, fece collassare interi comparti del bilancio di Lehman. La banca cercò disperatamente di ricapitalizzarsi, ma la fiducia sul mercato era ormai evaporata.

Il mercato interbancario, essenziale per garantire la liquidità quotidiana agli istituti di credito, si bloccò a causa del timore generalizzato di esposizioni tossiche. Ogni banca sospettava che l’altra potesse essere seduta su un patrimonio di titoli ormai quasi privi di valore. Di conseguenza, i tassi interbancari esplosero, mentre si restringevano le linee di credito. Lehman Brothers, già provata dalle perdite sui propri asset, si trovò così nell’impossibilità di rifinanziarsi sul breve termine. Senza la fiducia del mercato e senza la disponibilità di prestiti di emergenza, la banca non poteva più far fronte nemmeno alle normali esigenze operative.

Ma tornando ai segnali di crisi, ciò che colpisce è come fossero in realtà ben visibili a chi avesse voluto osservare con attenzione. Il costante incremento dei tassi di interesse decretato dalla Fed, pur giustificabile in ottica anti-inflazione, avrebbe dovuto far suonare più di un campanello d’allarme. Si stava infatti stringendo il credito proprio mentre milioni di famiglie stavano restituendo mutui a tassi variabili, legati appunto ai movimenti decisi dalla banca centrale. Non era difficile prevedere che quelle rate, una volta cresciute, sarebbero diventate insostenibili per molti.

Allo stesso modo, il raffreddamento del mercato immobiliare era un dato evidente già nel 2006, con i primi segnali di saturazione e la contrazione delle vendite. Eppure analisti e agenzie di rating continuarono a classificare come sicuri e redditizi pacchetti di titoli pieni di mutui a rischio. L’euforia dei rendimenti precedenti aveva creato una pericolosa assuefazione al guadagno facile, una fiducia eccessiva nella capacità della finanza di auto-regolarsi attraverso modelli matematici che, alla prova dei fatti, si rivelarono clamorosamente fallaci.

In quel periodo, la struttura stessa dei prodotti finanziari derivati, come i famigerati CDO (Collateralized Debt Obligation), aveva contribuito a mascherare la reale rischiosità degli investimenti. Le tranche più sicure erano effettivamente protette dalle prime ondate di default, ma nessuno aveva previsto che i default potessero crescere tanto da travolgere persino quei livelli giudicati inattaccabili. A peggiorare le cose fu la mancanza di trasparenza: pochi sapevano davvero quali mutui stessero dietro ai vari pacchetti, e questo alimentò il panico quando iniziarono i primi crolli.

Nel frattempo, la stessa politica dei tassi bassissimi mantenuta per anni aveva illuso milioni di cittadini che il credito fosse sempre a portata di mano, stimolando un’espansione dell’indebitamento familiare senza precedenti. Appena il vento cambiò, la fragilità strutturale di quel debito esplose. Il contesto pre-crisi fu dunque un mix letale di euforia, sottovalutazione del rischio, regolamentazioni troppo leggere e scelte di politica monetaria che finirono per accelerare il tracollo.

Lehman Brothers rappresenta, in questo scenario, il simbolo di un intero sistema che aveva perso il contatto con la realtà. I manager della banca continuarono a mostrare fiducia fino all’ultimo, cercando di rassicurare il mercato, mentre dietro le quinte tentavano disperatamente di trovare capitali freschi o un acquirente disposto a rilevare l’istituto. Ma nessuno volle caricarsi di passività così opache e potenzialmente disastrose. Quando la Federal Reserve e il Tesoro USA decisero di non intervenire più direttamente a salvare Lehman, come avevano fatto in precedenza per altri istituti, il destino della banca era segnato. Il fallimento dichiarato il 15 settembre 2008 fu solo l’inevitabile atto finale di una tragedia scritta da tempo.

Eppure, guardando indietro, ciò che lascia un senso di sgomento è proprio la prevedibilità di molti segnali. L’aumento dei tassi, il calo dei prezzi delle case, l’impennata dei default sui mutui, l’aumento della rischiosità dei portafogli bancari: tutto era sotto gli occhi di analisti, agenzie di rating, regolatori e investitori istituzionali. Ma la macchina della finanza globale aveva preso una velocità tale che nessuno, o quasi, ebbe il coraggio di tirare il freno. Anzi, molti sperarono semplicemente che la tempesta si placasse da sola, o che qualche intervento statale potesse tamponare la falla.

Questa storia ci insegna quanto sia pericoloso ignorare i campanelli d’allarme quando si ripone troppa fiducia in modelli astratti, senza confrontarli con la realtà economica e sociale. Alla fine, la combinazione di tassi più alti, case che valevano meno del debito residuo e famiglie incapaci di pagare le rate generò una valanga che travolse non solo Lehman Brothers, ma l’intera architettura finanziaria globale. Da allora molto si è scritto sulle lezioni da trarre, ma resta il fatto che la memoria dei mercati è spesso corta, e i meccanismi psicologici che alimentano bolle e crolli sembrano ripetersi ciclicamente, con nuovi nomi e nuovi strumenti, ma dinamiche molto simili.

 

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