Facebook compra WhatsApp: quando la privacy divenne un asset strategico

Facebook compra WhatsApp: quando la privacy divenne un asset strategico

Quando nel febbraio 2014 Facebook annunciò di aver acquistato WhatsApp per la cifra astronomica di 19 miliardi di dollari, il mondo si fermò per un istante. Non era solo la più grande acquisizione della storia per un'app mobile: era la prova definitiva che il valore dei dati aveva superato quello dei prodotti, che le reti sociali stavano diventando nuove infrastrutture di potere globale, e che la comunicazione privata stava entrando nel radar dei colossi della tecnologia.

WhatsApp, fondata nel 2009 da Jan Koum e Brian Acton, era nata come una semplice app per sostituire gli SMS. In pochi anni, grazie alla sua semplicità, alla totale assenza di pubblicità e all’attenzione alla privacy, aveva conquistato oltre 400 milioni di utenti attivi, molti dei quali fuori dagli Stati Uniti. Il suo modello era opposto a quello di Facebook: pochi fronzoli, zero algoritmi, nessuna raccolta dati apparente. Era l’app della fiducia. Ed è proprio per questo che Facebook decise di comprarla: perché la vera partita era la messaggistica privata, il futuro della comunicazione digitale.

L’accordo prevedeva 4 miliardi in contanti, 12 miliardi in azioni Facebook e 3 miliardi in azioni vincolate ai fondatori e dipendenti. Un prezzo considerato folle da molti analisti, che però Mark Zuckerberg giustificò con un’affermazione che sarebbe passata alla storia: “Il valore di un’azienda si misura dalle connessioni che genera. WhatsApp ha più utenti attivi giornalieri di chiunque altro, ed è destinata a diventare l’app di comunicazione di riferimento nel mondo”.

Dal punto di vista finanziario, l’operazione fu un colpo geniale. Facebook blindò il proprio ecosistema mobile, integrando WhatsApp con Messenger e Instagram e impedendo a concorrenti come Google o Tencent di mettere le mani sull’app. Ma dal punto di vista politico, normativo e culturale, iniziò una fase nuova, segnata da polemiche, indagini e disillusioni. Perché l’acquisizione sollevava interrogativi profondi: cosa resta della privacy quando un colosso dei dati controlla anche la messaggistica privata di oltre due miliardi di persone?

Nei primi tempi, Jan Koum cercò di rassicurare gli utenti: “Nessuna pubblicità, nessuna fusione dei dati con Facebook, WhatsApp resta indipendente”. Ma le promesse durarono poco. Nel 2016, Facebook iniziò a collegare i dati degli utenti WhatsApp ai profili Facebook per fini pubblicitari, causando reazioni durissime da parte delle autorità europee, in particolare il Garante tedesco e quello francese. Koum e Acton, in disaccordo con la direzione presa da Menlo Park, lasciarono l’azienda nel 2017 e 2018. Acton, in particolare, lanciò l’iniziativa #DeleteFacebook, accusando Zuckerberg di aver tradito lo spirito originario di WhatsApp.

La storia dell’acquisizione di WhatsApp è quindi anche una storia di etica, o di assenza della stessa. È il racconto di come una piattaforma nata per garantire comunicazione privata e sicura sia stata inglobata in una macchina algoritmica basata sulla monetizzazione dei dati. L’introduzione della crittografia end-to-end, tanto pubblicizzata, non è bastata a dissipare i dubbi. Gli utenti continuano a usare WhatsApp, ma spesso con la sensazione che non sia più un luogo neutrale.

Dal punto di vista strategico, però, Facebook (oggi Meta) ha ottenuto tutto quello che voleva. Ha fermato la crescita di un possibile concorrente, ha ampliato la propria copertura nei mercati emergenti, e ha potuto contare su un bacino di dati potenzialmente immenso. L’acquisizione ha anche rafforzato la posizione dominante di Facebook nel settore della comunicazione digitale, tanto che la Commissione Europea ha avviato inchieste antitrust per abuso di posizione dominante e mancata trasparenza nei dati forniti durante l’operazione.

Ma forse il vero impatto dell’acquisizione è culturale. WhatsApp era il simbolo di una nuova generazione di servizi digitali etici, trasparenti, “puliti”. L’inglobamento in Facebook ha spezzato quell’illusione. Ha mostrato che nessuna piattaforma può restare indipendente nel lungo periodo, se il suo valore strategico è tale da giustificare offerte miliardarie. Ha confermato che nel capitalismo delle piattaforme, la centralità dell’utente è sempre subordinata alla logica del ritorno economico.

Oggi WhatsApp è la piattaforma di messaggistica più utilizzata al mondo, con oltre 2,5 miliardi di utenti. Viene usata per lavoro, famiglia, politica, istruzione. In molti Paesi è diventata l'infrastruttura di comunicazione primaria, superando l’email e il telefono. Ma pochi ricordano che un tempo era un progetto indipendente, costruito da due ex dipendenti Yahoo che volevano solo creare un sistema pulito, privo di tracciamento. Dopo l’acquisizione, anche il design dell’app ha iniziato a cambiare, seguendo logiche più affini all’universo Meta.

La vicenda resta un punto di svolta nel capitalismo digitale. Mostra come il potere non si misuri più in quote di mercato, ma in dati, reti, abitudini. Facebook non ha comprato solo un'app: ha comprato l’intimità delle comunicazioni globali. E lo ha fatto in un momento in cui nessuno, o quasi, era in grado di porre un freno.

L’acquisizione di WhatsApp ha così aperto un nuovo capitolo nel dibattito sulla sovranità digitale, sul ruolo degli Stati, sulla possibilità di spezzare i monopoli del web. È stata la prova che la tecnologia non è mai neutra, e che dietro ogni interfaccia si cela un modello di business, un’ideologia, una visione del mondo. E anche, spesso, un prezzo troppo alto da pagare.

 

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