A più di quindici anni dal fallimento di Lehman Brothers, il mondo della finanza continua a fare i conti con quell’evento spartiacque che ha lasciato cicatrici profonde sui mercati, sui sistemi bancari e sulle vite di milioni di persone. La bancarotta della storica banca d’affari americana, avvenuta il 15 settembre 2008, segnò il culmine di una crisi finanziaria già in atto da mesi, ma al tempo stesso rappresentò l’avvio di una spirale di sfiducia che si abbatté con violenza sull’economia reale, trascinando nella recessione globale paesi grandi e piccoli.
Ma cosa ci ha insegnato davvero quella crisi? E quali rischi, nonostante le tante riforme introdotte, restano ancora oggi presenti nell’architettura del sistema finanziario internazionale? L’eredità di Lehman non è solo un racconto del passato, ma una lente attraverso cui osservare il presente e prepararci al futuro.
La prima lezione, tanto semplice quanto ignorata all’epoca, riguarda la solidità patrimoniale delle banche. Prima del 2008 molti istituti avevano incrementato in modo eccessivo la leva finanziaria, ossia il rapporto tra debiti e capitale proprio, confidando che i mercati immobiliari continuassero a crescere e che la cartolarizzazione dei crediti riducesse il rischio complessivo. In realtà, le strutture sofisticate come i CDO (Collateralized Debt Obligations) e i derivati legati ai mutui subprime non solo non dispersero il rischio, ma contribuirono a concentrarlo e a nasconderlo, rendendolo opaco agli occhi degli stessi operatori.
Il secondo insegnamento riguarda l’eccessiva fiducia nelle agenzie di rating, che assegnavano giudizi massimi (AAA) a titoli che si sarebbero rivelati carta straccia. Questo meccanismo di certificazione acritica contribuì a diffondere la percezione di sicurezza dove invece c’era incertezza, inducendo investitori istituzionali, fondi pensione e perfino piccole banche locali a comprare titoli rischiosissimi. L’autonomia e l’affidabilità del sistema dei rating è stata messa duramente in discussione e ha spinto, negli anni successivi, a tentare di regolamentare meglio queste società, con risultati però ancora parziali.
Un altro punto critico emerso dalla crisi Lehman è stata la frammentazione della vigilanza bancaria e finanziaria. In un mondo in cui i capitali si muovono alla velocità della luce e senza confini, le regole restano spesso nazionali. Nel 2008 mancava un vero coordinamento tra le autorità di supervisione dei diversi paesi, e ciò ha reso più difficile gestire una crisi che aveva dimensioni globali. Solo successivamente si sono creati organismi come il Financial Stability Board (FSB) e si è rafforzata la cooperazione tra banche centrali e autorità di vigilanza. Ma ancora oggi esistono vuoti di coordinamento, specie verso realtà opache come i fondi hedge o il private equity, che sfuggono ai controlli diretti delle banche centrali.
Anche i governi, all’epoca, si trovarono impreparati. Inizialmente le autorità statunitensi lasciarono fallire Lehman Brothers per dare un segnale di disciplina di mercato, ma l’effetto fu un crollo di fiducia senza precedenti. Le banche smettono di prestarsi soldi l’una con l’altra quando non sanno chi sarà il prossimo a cadere. Questo congelamento del credito colpì immediatamente le imprese e le famiglie, con la conseguenza di un’ondata di licenziamenti e fallimenti industriali. Da allora si è compreso che, in certi casi, il salvataggio pubblico di istituti sistemici è necessario per evitare danni ben peggiori, e si sono stabiliti piani di intervento preventivi, come i cosiddetti bail-in, per evitare che i contribuenti debbano pagare sempre il conto.
La crisi Lehman ha anche messo in luce quanto fosse delicata la relazione tra debito pubblico e sistema bancario. Molte banche detenevano ingenti quantità di titoli di Stato, e il rischio sovrano si è saldato a doppio filo con quello bancario. Durante la successiva crisi dell’Eurozona, questo legame ha creato un circolo vizioso: i dubbi sulla solvibilità di alcuni Stati mettevano in difficoltà le banche che di quei titoli erano piene, e la fragilità delle banche accresceva i timori sui costi dei possibili salvataggi da parte dei governi. Oggi, il problema non è scomparso. I debiti pubblici sono in molti casi ancora più elevati di allora, e sebbene i tassi bassi abbiano consentito di sostenerli, un eventuale aumento del costo del denaro potrebbe riaccendere focolai di instabilità.
Non possiamo trascurare nemmeno il ruolo delle politiche monetarie ultra-espansive adottate negli anni seguenti per rilanciare l’economia. Il quantitative easing e i tassi d’interesse vicini allo zero hanno sì favorito la ripresa e sostenuto i mercati, ma hanno anche alimentato nuove bolle speculative, in particolare nei settori tecnologici e immobiliari in alcune aree del mondo. Allo stesso modo, il denaro a basso costo ha incentivato operazioni di acquisizione e leveraged buyout spesso rischiose, facendo crescere l’indebitamento del comparto corporate.
Un rischio latente riguarda proprio i cosiddetti settori ombra, come i fondi hedge e il private equity, che possono assumere posizioni speculative enormi grazie alla leva, senza essere soggetti ai requisiti patrimoniali e di trasparenza imposti alle banche tradizionali. Un loro eventuale default o una corsa collettiva a riscattare i capitali potrebbe generare effetti domino difficili da contenere.
Ma l’eredità di Lehman non si esaurisce in questi aspetti tecnici. Ha inciso anche sulle percezioni collettive: ha dimostrato quanto un sistema che si presumeva efficiente e autoregolato potesse essere invece fragile, esposto a illusioni di breve periodo e a comportamenti opportunistici. Ha messo a nudo le carenze di governance, i conflitti di interesse, l’assenza di controlli effettivi. Ha tolto l’innocenza alla globalizzazione finanziaria, rivelando come la ricerca spasmodica del rendimento potesse rapidamente trasformarsi in distruzione di valore e in recessione economica.
Oggi gli economisti e i policy maker continuano a interrogarsi su come prevenire future crisi sistemiche. Si sono rafforzati gli stress test, sono stati introdotti standard patrimoniali più severi come quelli di Basilea III, si è spinto verso una maggiore trasparenza dei bilanci. Tuttavia, alcuni osservatori avvertono che la memoria dei mercati è corta: con il passare del tempo, le stesse banche e gli stessi investitori tendono a sottovalutare i rischi, soprattutto in un contesto in cui il rendimento di investimenti sicuri è basso.
La lezione più importante, dunque, è forse proprio questa: la vigilanza non può mai considerarsi un fatto acquisito una volta per tutte. La complessità crescente dei prodotti finanziari, la rapidità degli scambi globali e l’innovazione continua pongono sempre nuove sfide alla supervisione e alla regolamentazione. Ogni ciclo di crescita euforia si porta dietro il germe di una possibile correzione violenta, e solo istituzioni solide, trasparenti e coordinate a livello internazionale possono cercare di attenuare l’impatto delle future crisi.
In conclusione, l’eredità di Lehman continua a proiettarsi sul presente. Ci ha insegnato quanto sia essenziale la solidità patrimoniale delle banche, quanto sia pericoloso delegare completamente il giudizio ai mercati e alle agenzie di rating, quanto siano importanti regole chiare e coordinate a livello globale. Ha evidenziato i legami pericolosi tra finanza privata e debiti sovrani, le derive speculative alimentate da tassi bassi e liquidità abbondante, le vulnerabilità di un sistema sempre più interconnesso.
Oggi sappiamo che non esiste un punto d’arrivo definitivo nella stabilità finanziaria. Esiste piuttosto un percorso continuo, fatto di aggiustamenti, riforme, interventi tempestivi e di una vigilanza che deve restare sempre all’erta. Perché in un mondo dove il capitale si muove a velocità digitale, ma la fiducia si perde in un attimo, non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Ecco perché l’eredità di Lehman, pur dolorosa, resta una lezione preziosa: un monito che ci ricorda quanto sia fragile il castello della finanza globale e quanta cura occorra per tenerlo in piedi.