A-Style, l’icona nata per gioco di Marco Bruns che ha fatto tremare il marketing

A-Style, l’icona nata per gioco di Marco Bruns che ha fatto tremare il marketing

Lo strano caso di A-Style – il primo esempio inconsapevole di guerrilla marketing nella moda italiana

Tutto comincia per gioco, o meglio, per un’intuizione grafica priva di qualsiasi intento strategico. Una semplice “A” affiancata da due pallini: questa la scintilla visiva che avrebbe innescato una rivoluzione silenziosa, non progettata ma travolgente, nell’universo del branding e della moda italiana. A concepire l’idea fu Marco Bruns, studente di graphic design a Milano, nel lontano 1999. Nessuna presentazione in PowerPoint, nessun business plan, nessuna agenzia creativa alle spalle. Solo la forza cruda, istintiva e liberatoria di un segno grafico capace di evocare, all’insaputa del suo creatore, un immaginario potente e destabilizzante.

Il logo, erotico ma non volgare, ambiguo ma perfettamente equilibrato, comincia a circolare sotto forma di adesivo. Bruns lo stampa in autonomia e lo attacca nottetempo sui semafori milanesi, dopo le serate in discoteca. Non c’è alcuna intenzione commerciale, ma solo il desiderio, tipicamente giovanile, di lasciare un segno nel paesaggio urbano, di generare stupore, persino fastidio, ma senza cadere nella provocazione sterile. I suoi amici, amanti del surf e dello snowboard, lo seguono, e in pochi mesi Milano si trasforma in un percorso segnato da icone misteriose, un codice urbano che sfugge alla razionalità pubblicitaria e si insinua, invece, nel subconscio collettivo.

I media locali, poi quelli nazionali, si accorgono della presenza ubiqua e anonima di quella “A” con i due pallini. Il mistero alimenta la curiosità, il simbolo si trasforma in leggenda metropolitana, in oggetto di discussione prima nei bar, poi nei salotti televisivi. Il logo diventa virale prima ancora che il termine entri nel vocabolario del marketing. Qualcuno suggerisce a Bruns di trasformare l’icona in un brand, e il passaggio da arte urbana a streetwear è quasi naturale. Nascono le prime t-shirt, vendute in un piccolo negozio del centro. L’effetto è travolgente: la domanda supera l’offerta, il logo si moltiplica, invade le strade, i locali, i corpi.

È a questo punto che entra in scena Simone Sidoti, imprenditore titolare della Fin.esse, che vede in quel fenomeno culturale un’opportunità imprenditoriale. A-Style evolve, in pochi mesi, in un vero e proprio marchio di abbigliamento, capace di generare milioni di euro di fatturato e di conquistare un pubblico vastissimo, al di là delle appartenenze generazionali o subculturali. Il logo viene indossato da Lionel Messi, da celebrità televisive, da sportivi di ogni disciplina. Il linguaggio della marca non ha bisogno di spiegazioni: comunica libertà, ironia, provocazione contenuta, ed è proprio questa sua natura ambigua a renderla irresistibile.

Nel pieno del successo, A-Style arriva a fatturare oltre 13 milioni di euro, con espansioni programmate in Francia, Spagna, Olanda, Inghilterra e Giappone. La “A” si trasforma da segno grafico in icona culturale, un oggetto estetico caricato di significati non dichiarati, eppure immediatamente percepiti. Nulla sembra fermarla, nemmeno i primi problemi legali: il logo era stato regolarmente registrato nel 1991, eppure nel 2005 il Tribunale di Milano respinge la tutela del marchio, ritenendolo “contrario all’ordine pubblico e al buon costume”. È solo nel 2007 che il Tribunale di Bari ribalta la sentenza, riconoscendo che il riferimento sessuale è “eventuale e indiretto”, permettendo a Bruns di difendersi anche dai primi casi di legal fake, una piaga che avrebbe afflitto negli anni successivi molti brand streetwear.

Il fascino di A-Style non si limita però alla forza del suo segno visivo. È nella comunicazione non convenzionale che il marchio mostra il suo genio, anche qui, apparentemente, senza volerlo. Bruns dissemina quattro milioni di coriandoli con il logo del brand durante il Pitti Uomo 2004. Sponsorizza team di MotoGP e Rally, coinvolgendo piloti del calibro di Robert Kubica. Ma il gesto più eclatante resta forse quello di disegnare il logo sui tornanti del Tour de France, un’operazione semplice ma potentissima: grazie alle riprese televisive, l’icona viene trasmessa in mondovisione, raggiungendo milioni di spettatori inconsapevoli. Anche Lance Armstrong viene fotografato accanto a quella “A” ambigua, e il ciclo dell’attenzione si riattiva, ancora una volta, attraverso la disseminazione visiva silenziosa e penetrante.

La vera forza di A-Style risiede nella sua origine organica, nel fatto che il logo preceda il prodotto, che la marca nasca prima della collezione, che l’idea venga al mondo non come strumento di guadagno ma come esperimento grafico e sociale. Bruns stesso lo dice chiaramente: non sapeva nulla di guerrilla marketing, non conosceva il lessico della comunicazione pubblicitaria, non c’erano né budget né target. Eppure, proprio questa assenza di struttura diventa il suo vantaggio competitivo. A-Style è anti-brand e super-brand allo stesso tempo. È la rappresentazione più pura di un’idea che diventa culto senza passare per le consuete fasi di incubazione commerciale.

L’ironia visiva è parte essenziale di questo percorso: il doppio senso erotico, mai esplicito, mai volgare, rende il logo memorabile, ma anche paradossalmente elegante. Si muove sul crinale del “non detto”, attiva immaginazione, alimenta conversazioni, e soprattutto non impone nulla. È il pubblico a caricarlo di significato, a investirlo di senso, a farlo proprio. In questo senso, A-Style si inserisce pienamente nella genealogia di brand come Supreme o Palace, nati da un’estetica underground e capaci di trasformare il simbolo in identità collettiva. Ma con una differenza cruciale: mentre Supreme costruisce la propria mitologia su strategie di scarcity e hype controllato, A-Style si dona alla strada, si lascia moltiplicare, copiare, sporcare, consumare.

Il rapporto con la contraffazione è centrale. Già nel 2010 Bruns denuncia la Fin.esse per aver continuato a produrre abbigliamento col suo logo anche dopo la fine della licenza esclusiva. Ma la copia non uccide il marchio, semmai lo moltiplica. A-Style diventa un virus culturale, difficile da controllare, difficile da definire. Il suo valore risiede nell’essere ovunque, nel trasformarsi in simbolo popolare, nel resistere all’usura del tempo. O almeno, per un periodo.

Perché, come spesso accade ai brand generazionali, anche A-Style conosce una fase di declino. L’appeal visivo della “A” con i due pallini, un tempo irresistibile, viene superato dalle nuove tendenze, dalle mode estetiche più sobrie o più digitali. I capi di abbigliamento finiscono nel dimenticatoio, relegati negli scaffali di Amazon, svuotati del carisma originario. È un destino comune a molti marchi che hanno fatto la storia nei primi anni Duemila: da Guru a Sweet Years, la rapidità della crescita si riflette in una caduta altrettanto veloce. Ma il lascito culturale, quello no, non si cancella.

A-Style resta un caso di studio eccezionale, perché mette in discussione ogni dogma della comunicazione. Dimostra che la viralità può nascere dal basso, che il branding può essere un processo involontario, che la potenza di un’idea grafica può generare un impero, anche in assenza di qualunque strategia. Resta l’emozione visiva, la memoria condivisa di quei semafori milanesi tappezzati di ambiguità, la sensazione di aver assistito, forse senza accorgersene, alla nascita di qualcosa che andava oltre la moda, oltre il marketing, oltre l’epoca.

Nel tempo dell’hyper-targeting e della comunicazione predittiva, il caso A-Style ci ricorda che la creatività non è programmabile, che l’intuizione può più della pianificazione, che l’arte del marchio è ancora capace di stupire se si libera dalle griglie. La forza della “:A” non è solo nel suo design, ma nell’essere diventata parte della città, parte delle persone, parte di un tempo in cui l’immaginazione poteva ancora correre libera per le strade, senza preoccuparsi di metriche, investimenti e ROI.

Forse è proprio per questo che, ancora oggi, quella strana “A” ci parla. Non solo di un’epoca, ma della possibilità stessa di esistere come marchio senza vendere nulla. Almeno all’inizio. E forse, in fondo, è questo il vero lusso.

 

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