Il 6 agosto 1945, alle 8:15 del mattino, il cielo su Hiroshima venne squarciato da una luce mai vista prima. Era l’inizio di una nuova epoca, quella dell’era nucleare, annunciata da un boato assordante e da un fungo di fuoco e polvere che si alzava verso il cielo. La bomba atomica, battezzata con il nome quasi ironico di "Little Boy", era stata sganciata da un bombardiere B-29 statunitense chiamato Enola Gay, e cambiò il destino non solo del Giappone, ma dell’intera umanità.
Quel giorno, decine di migliaia di persone morirono all’istante, incenerite o ridotte in ombre sulla pietra. Molti non ebbero nemmeno il tempo di accorgersi della propria morte. Altri, sopravvissuti al primo impatto, vissero giorni, mesi o anni in condizioni disperate, devastati da ustioni, malattie da radiazione, fame e dolore. La città di Hiroshima fu rasa al suolo: 12 km quadrati scomparvero sotto la potenza della bomba. Ospedali, scuole, templi, case, famiglie: nulla fu risparmiato. L’effetto psicologico fu pari a quello fisico: un intero popolo si trovò a contemplare l’abisso aperto dalla scienza applicata alla distruzione di massa.
Eppure, non bastò. Tre giorni dopo, il 9 agosto 1945, un’altra bomba, chiamata "Fat Man", fu sganciata su Nagasaki, dopo che la città prescelta, Kokura, risultò coperta dalle nubi. Anche lì, la morte piovve dal cielo. Anche lì, la popolazione civile pagò il prezzo più alto. Circa 35.000-40.000 persone morirono subito, mentre le radiazioni provocarono malattie incurabili, tumori, malformazioni genetiche per decenni a venire.
La decisione di utilizzare le armi atomiche fu presa dal presidente statunitense Harry Truman, informato del successo del progetto Manhattan proprio mentre si trovava a Potsdam, in Germania, per discutere il futuro dell’Europa con Churchill e Stalin. Si trattò di una decisione strategica, militare, politica e simbolica insieme. La giustificazione ufficiale fu che solo un’azione di tale portata avrebbe convinto il Giappone militarista a deporre le armi, evitando così una invasione terrestre che, secondo le stime, avrebbe causato centinaia di migliaia di morti tra i soldati alleati e molti di più tra i civili giapponesi.
Ma c’era anche un’altra ragione, meno dichiarata ma ampiamente discussa dagli storici: mostrare la forza degli Stati Uniti all’Unione Sovietica, ormai ex alleata e già potenziale rivale nel nuovo ordine mondiale che si stava delineando. Era il primo atto di quella che diventerà la Guerra Fredda, una guerra di potenza, influenza e tecnologia, combattuta anche attraverso la corsa agli armamenti nucleari.
Nell’estate del 1945, il Giappone era in ginocchio, ma non arreso. Dopo la caduta della Germania nazista, restava l’unico nemico degli Alleati. Eppure, il governo giapponese, dominato da una mentalità nazionalista e fanatica, non intendeva cedere. L’imperatore Hirohito, considerato una figura semidivina, non aveva ancora pronunciato la parola "resa". Anche i timidi tentativi di avvicinamento all’URSS, allora ancora neutrale, fallirono. Ma proprio il 9 agosto, lo stesso giorno del bombardamento di Nagasaki, anche l’Unione Sovietica entrò in guerra contro il Giappone, invadendo la Manciuria e schierando oltre un milione di uomini sul fronte asiatico. Di fronte alla catastrofe nucleare e alla pressione militare su due fronti, il 15 agosto l’imperatore comunicò alla nazione la decisione di arrendersi. Fu la prima volta che i giapponesi sentirono la sua voce.
Il 2 settembre 1945, a bordo della nave da guerra USS Missouri, venne firmato l’atto formale di resa. La Seconda Guerra Mondiale era finita. Il conflitto più sanguinoso della storia si era chiuso con due esplosioni nucleari che aprivano scenari inediti e inquietanti per il futuro. Non fu solo la fine di una guerra: fu l’inizio di una nuova epoca, segnata dalla consapevolezza che l’umanità aveva ora il potere di autodistruggersi.
Il bilancio dei bombardamenti atomici è agghiacciante: si stima che le vittime totali tra Hiroshima e Nagasaki siano state oltre 200.000, di cui molte morirono nei mesi e negli anni successivi a causa delle radiazioni ionizzanti, che danneggiano il DNA e colpiscono soprattutto le cellule in rapida replicazione, come quelle di bambini, donne incinte e organi interni. La parola hibakusha, che in giapponese indica i sopravvissuti alla bomba, è oggi simbolo di resilienza, ma anche di sofferenza e discriminazione. Molti hibakusha vennero emarginati, ritenuti "contaminati" o destinati a malattie incurabili. Eppure, sono stati proprio loro, con le loro testimonianze, a trasformare la tragedia in memoria collettiva, impegnandosi attivamente per la pace e il disarmo nucleare.
Il dibattito etico e storico sull’uso delle bombe atomiche non si è mai spento. I sostenitori della scelta americana sottolineano che la guerra sarebbe durata ancora mesi, forse anni, e che l’alternativa – un’invasione del Giappone – avrebbe causato più vittime. Inoltre, la resa rapida del Giappone permise la liberazione di prigionieri alleati, e impedì ulteriori atrocità commesse dai militari giapponesi in Cina, Corea e Sud-est asiatico. Ma i detrattori, tra cui numerosi scienziati e militari, affermano che il Giappone era già in fase di collasso, e che si sarebbero potute usare altre forme di pressione, come una dimostrazione pubblica della potenza nucleare su un’area disabitata. Dunque, i bombardamenti su civili innocenti non furono necessari dal punto di vista strategico, ma furono un messaggio politico agli avversari di domani.
Inoltre, va sottolineato che Hiroshima e Nagasaki non furono scelte casuali. Erano città industriali e portuali, ma soprattutto erano state risparmiate dai precedenti bombardamenti convenzionali proprio per poter valutare con precisione gli effetti dell’arma nucleare. Una vera e propria sperimentazione bellica su larga scala, i cui effetti vennero documentati minuziosamente da scienziati e fotografi militari.
Da allora, il mondo è cambiato. La bomba atomica non è mai più stata usata in guerra, ma è diventata il fulcro della deterrenza nucleare. Gli Stati Uniti, seguiti dall’URSS e poi da altri Paesi come Regno Unito, Francia, Cina, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord, hanno costruito arsenali giganteschi. Nei momenti più tesi della Guerra Fredda, come durante la crisi dei missili a Cuba, il mondo è stato a un passo dall’apocalisse nucleare. E ancora oggi, il rischio non è scomparso. Le testate nucleari esistenti potrebbero distruggere la Terra decine di volte, e la proliferazione in aree instabili rappresenta una minaccia costante.
Il 6 agosto è diventato così un giorno di memoria e riflessione. A Hiroshima, ogni anno si tiene una cerimonia della pace, con la partecipazione di leader politici, religiosi e sopravvissuti. Vengono accese lanterne sull’acqua, in silenzio, come simbolo delle anime perdute. Le campane suonano alle 8:15, l’ora dell’esplosione. Gli studenti leggono messaggi di speranza, e tutto si ferma per un minuto di silenzio.
Questo giorno ci ricorda che la guerra moderna, con le sue armi tecnologiche, può travolgere ogni distinzione tra civili e militari, tra innocenti e colpevoli. Ci ricorda anche che il progresso scientifico, se non accompagnato da coscienza etica, può produrre mostri. Le stesse scoperte che hanno portato a curare malattie e a esplorare lo spazio sono state usate per creare strumenti di annientamento.
La domanda che ancora oggi ci tormenta è: fu giusta la decisione di usare la bomba atomica? La risposta non può essere univoca. Dipende dal punto di vista, dal contesto, dai valori che si scelgono come riferimento. Ma forse la domanda più importante non è "fu giusto?", bensì: "abbiamo imparato qualcosa da allora?". La memoria storica non è utile se serve solo a emettere sentenze retroattive. Serve, piuttosto, a prevenire. A formare coscienze. A promuovere la cultura della pace, del dialogo, della cooperazione.
Oggi, mentre nuove tensioni globali mettono in discussione la stabilità internazionale, il ricordo di Hiroshima e Nagasaki deve restare vivo e presente. Non per generare senso di colpa, ma per coltivare responsabilità collettiva. La pace non è un dono, è una scelta quotidiana. E la non proliferazione nucleare non è un’utopia, ma una necessità. La vita umana, con la sua fragilità e bellezza, deve tornare al centro della politica, della scienza, dell’economia.
Il 6 agosto 1945 ci ha mostrato cosa accade quando l’umanità dimentica se stessa. Oggi, ottant’anni dopo, abbiamo ancora tempo per ricordare, capire e cambiare. La memoria di Hiroshima non deve essere solo un ricordo di morte, ma un impegno per la vita.