Ci fermiamo per una breve sosta a Shakhrisabz (la città verde) un po’ stanchi e accaldati, ma ciò che si presenta ai nostri occhi è uno spettacolo di tale maestosità da cancellare ogni traccia di stanchezza.
I resti imponenti dell’antico palazzo Ak-saray, voluto da Amir Temur il Tamerlano, lasciano intuire le dimensioni ciclopiche della costruzione, che doveva avere un portale dell’altezza di 50 metri e le torri minareto dalla base diagonale.
Una costruzione che nel suo insieme durò vent’anni, a partire dal 1380 e per la quale furono convocati i maggiori artigiani locali così come i maestri della Korazmia e dei Paesi caduti sotto il dominio di colui che è oggi un eroe nazionale.
Terminata la visita di Shakhrisabz, con la Moschea di Kok-Gumbaz e Dorut Tilyovat e il complesso dell’imam Khazrati, riprendiamo la strada per Samarcanda domandandoci se qualcosa potrà ancora stupirci dopo tutto ciò che abbiamo visto fin qui.
Descrivere l’emozione di trovarsi in questa antica e splendida città “dalle cupole blu” è praticamente impossibile. Il Registan, il Gour-e-amir, la moschea Bibi Kanhoum, il cimitero Afraisab…non staremo qui a descrivere i tanti monumenti, mausolei, madrasse e moschee grazie ai quali Samarcanda è stata inserita a pieno titolo nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO; per questo ci sono le guide turistiche. Ciò che invece ci pare importante riportare è che, nonostante una certa atmosfera di turismo di massa, basta camminare per i vicoli secondari per ritrovare l’autenticità dei luoghi e soprattutto delle persone, sempre accoglienti, colorate e sorridenti, come abbiamo incontrato finora. Emozionante una passeggiata la sera, per gustare la magia dei monumenti illuminati.
Concluderemo il nostro viaggio a Tashkent, città sorprendentemente moderna, ma dal cuore antico, dove i grattaceli sfiorano lo stesso cielo dei minareti storici.
Ovunque, da Khiva in poi, denominatore comune è l’Islam e i suoi simboli: le bellissime moschee e gli arditi e piastrellati minareti, così come le madrase, cioè le scuole coraniche, come i diversi mausolei, questi e quelle tutti artisticamente lavorati, ispirati a una concezione architettonica grandiosa che utilizza mattoni, marmi, smalti, legni sempre minutamente lavorati con i tipici disegni geometrici, le mistiche svastiche -la cui idea fu poi fatta propria dai nazisti- le scritte dorate in arabo ispirate al Corano, le colonne gigantesche che talvolta suggeriscono, nella loro disposizione, fughe nello spazio in giochi di prospettiva, cupole smaltate, per lo più lisce, ma anche finemente sbalzate che si profilano suggestive verso il cielo. La loro fitta presenza in uno spazio così raccolto come quello di Khiva, ma anche in quelli delle maestose piazze di Bukhara, Shakhrisabz, Samarcanda e Tashkent, ci narrano di un paese antico e devoto, ma assolutamente non chiuso nella sua confessione. Allo straniero che arriva non si impedisce di visitare moschee, minareti, madrase e mausolei, con l’unica accortezza di togliersi le scarpe prima di accedervi. Il pensiero, per contrasto, corre all’immagine di un altro Islam che, con la sua violenza, le sue distruzioni, il tanto sangue innocente versato, il suo fanatismo e la sua follia disumana, sembra contraddire tanta bellezza. Qui no. In Uzbekistan l’Islam si apre al viaggiatore, allo straniero, lo accoglie. Merito di una visione laica che lo Stato ha imposto fin dalla sua indipendenza, autoproclamata, il 31 agosto del 1991, così affrancandosi dalla dominazione sovietica che, da par suo, portava le colpe di una ideologia che, in nome di un ateismo di stato poliziesco, minava alla base i principi di libertà dell’uomo. Fatto molto grave, tanto più quanto calpestava quei valori fatti propri dal comunismo e dalle lotte in nome di esso, per imporre una visione decisa da pochi uomini, da un partito, sulla intera popolazione alla quale si negava, si è voluto negare, con la libertà di scelta anche quella della sua storia e delle sue tradizioni, ora impedendole, ora nascondendole, cancellandole dai libri, dalla cultura, dalla vita, obbligandoli a una unica dimensione che era quella del potere sovietico.
“Ho saputo dell’esistenza di personaggi come Amir Temur, più conosciuto come Tamerlano, il condottiero nato a Shakhirisabz, solo dopo l’indipendenza. I sovietici avevano azzerato la nostra storia sui libri, facendola cominciare dal loro arrivo qui” ci dice Gula, la guida che ci ha fatto conoscere Tashkent.
Di tutte le città uzbeke, come già capitato a Khiva, colpisce la cura meticolosa degli addetti che a mano, una ad una, raccolgono le foglie cadute, strappano i fiori appassiti, bagnano le aiuole con l’innaffiatoio, mentre per i prati, sempre ben rasati, sono previsti sistemi di irrigazione capillare che mantengono il verde a dispetto dei 250 giorni di sole di cui gode il Paese e dei 40 gradi all’ombra che incombono nei mesi centrali dell’estate a partire dalla primavera. Moltissimi i gelsi che spandono i loro dolcissimi frutti per le strade. D’altra parte è da questa pianta che prende linfa la tessitura della seta che è uno dei prodotti qui più diffusi.
Del tutto sparita la tradizionale paranja, il costume costituito da un lungo mantello che copriva la testa, mentre un velo nero, di crine di cavallo, nascondeva il viso. Il raro merito di questa liberazione va al periodo comunista che ne proibì l’uso e, per questo, si ricorda un 8 marzo del 1927 in cui un gruppo di donne uzbeke, arrivate nella grande piazza Registan di Samarcanda, accesero un falò dentro il quale gettarono il velo. E’ importante notare che, d’allora, tranne che per il fazzoletto o il velo in testa, il volto delle donne è sempre libero, così come capita di incontrarne molte, soprattutto tra le giovani, con i capelli sciolti e al vento. L’espressione più autentica di un Paese che merita di essere conosciuto.
Il nostro viaggio è terminato, porteremo nel cuore le grandi bellezze e il sorriso della gente uzbeka.